A testa china
Pubblicato il 29 ottobre 2019 10 commenti

A testa china, anche se da due giorni mi scoppia, come se avessi un martello pneumatico dentro, a testa china per non inciampare, per osservare da un altro punto di vista, per volare basso, a testa china per ammettere errori, colpe, distrazioni e chiedere scusa. Non è poi così difficile.
Ieri avevo febbre, emicrania e dolori in ogni dove, ma anche la riunione scolastica annuale, quindi, accompagnata da un’amica, nonché madre di un compagno di classe della sedicenne, mi sono recata a scuola delle figlie, già con un sentore di ansia visto che la mattina avevo ricevuto una chiamata dalla segreteria in cui mi si avvisava che un’insegnante della quindicenne mi aspettava il giorno dopo per un colloquio. Benché la mia mole potrebbe consentirlo, non sono ancora riuscita nell’intento di sdoppiarmi, quindi, visto che ogni classe aveva la sua riunione alla stessa ora, vigliaccamente mi sono recata nella classe della sedicenne, avvisando che sarei andata in quella della quindicenne il prima possibile. Eravamo in quattro più l’insegnante, come sempre, ed è stato rapido e indolore, anche perché le problematiche della classe sono sempre le stesse da quattro anni ormai, ma, sempre da quattro anni, i genitori che dovrebbero prendere coscienza della situazione, e rendersi conto che nessuno ancora è riuscito a partorire il figlio perfetto, eludono, svaniscono, diventano entità sovrannaturali di cui si conosce il nome ma non l’immagine. Vabbè. Corro verso l’altra aula ( per fortuna quest’anno sono nel medesimo piano, una in cima e una in fondo al corridoio, ma la falcata almeno è lineare e rapida, lo scorso anno le scale mi avevano fatto arrivare stravolta, sudata e accaldata, un bel figurino di madre), chiedo permesso ed entro. Qui la situazione è diversa, le mamme sono più numerose ma anche stizzite e immusonite. Mi siedo, ascolto le ultime raccomandazioni dell’insegnante e, quando la riunione finisce, chiedo al genitore che ho dietro cosa era stato detto prima del mio arrivo. Mi viene spiegato che hanno fatto presente che c’è un gruppetto di tre alunni che disturba le lezioni, i tre moschettieri chiacchierano, ridono, non rispettano la concentrazione di chi è interrogato e creano in classe un caos tale che gli insegnanti tendono a dare dei compiti in più per punizione, a tutti “azzerando così la meritocrazia”( testuali parole della genitrice stizzita). Visto che la matematica è il mio mestiere, faccio due più due e la somma tra la convocazione per il giorno dopo e le lamentele per il gruppetto mi dà un risultato di assoluta colpevolezza della quindicenne. Alcune mamme, che mi avevano chiesto in prestito la penna, sembravano più disposte al sorriso ma quando, nel restituirmela, mi hanno chiesto di chi fossi genitore, alla mia risposta si sono stizzite e ammutolite. Capo chino. Torno a casa, chiedo spiegazioni alla quindicenne, con il martello nella testa che non va un attimo in pausa, lei fa la faccia stupita, si, ammette di chiacchierare, ammette di ridere, ogni tanto, ma giura di essere una studentessa attenta ed educata, semmai la sua amica, non più del cuore ma di merende si, è più agitata e impertinente. Scommetto che l’amica avrà detto le stesse cose alla madre, ognuna si para le chiappe e io non sono nata ieri, purtroppo, per non capirlo. Mi parte l’embolo, minaccio la dipartita del telefono e, soprattutto l’attesa uscita in discoteca per giovedì sera, ma lei discute, apre dibattiti che io non riesco a gestire perché il martello pneumatico ha deciso di aumentare il ritmo di lavoro.
Stamani, a testa china, sono andata al colloquio con l’insegnante che mi ha confermato l’esatta soluzione della somma che avevo fatto il giorno prima. Le hanno pure buttate fuori dall’aula un paio di volte, i genitori degli altri alunni si stanno lamentando e vorrebbero una punizione esemplare, si, l’amica è la mente, quella che cerca di trascinare mia figlia, quindi, a detta dell’insegnante, basterebbe che prendesse coscienza e amor proprio per togliersi il vello da pecora, ma io sono peggio dell’insegnante, non dò attenuanti alla quindicenne perché credo che abbia un’età tale da poter scegliere se essere pecora o meno, da capire le conseguenze del proprio comportamento, quindi chiedo che vengano divise e messe il più lontano possibile l’una dall’altra, prometto che a casa mi impegnerò nel farle capire che il suo atteggiamento è sbagliato e chiedo all’insegnante che, se dovessero capitare altri episodi di disturbo delle lezioni, non abbia remore a impartire un’adeguata punizione. La professoressa è sollevata, si aspettava un genitore pronto a difendere la figlia a spada tratta, a colpi di denunce e minacce ( vuol dire che ormai questo è diventato il normale comportamento? ), ma ha davanti una genitrice comprensiva e collaborativa, quindi è meno titubante nell’avvisarmi che, al prossimo richiamo, la punizione è già stata decisa: sospensione con obbligo di frequenza e un bel cinque in condotta. Deglutisco, il martello pneumatico ha ricominciato il suo bel turno di lavoro, mi sento l’occhio che balla, ma, impavida, rincaro la dose e suggerisco che la sospensione non sia con obbligo di frequenza scolastica ma con obbligo di servizi sociali in un ricovero per anziani.
A testa china, ogni tanto dobbiamo guardare a terra, chiedere scusa ma con la consapevolezza di aver davvero qualcosa di cui scusarsi, io, sicuramente, ho abbassato troppo la guardia con la quindicenne e devo cominciare a essere una madre più presente ( ma non pressante) nella sua vita scolastica, spiegarle cosa significhi studiare, cosa significhi il rispetto per il prossimo e darle una ripassata di regole di educazione, ma un bagno di umiltà farebbe bene anche a quei genitori che si lamentano di tutto e tutti, quelli che considerano i figli infallibili, quelli che danno sempre la colpa agli altri per le proprie carenze o errori. Insegniamo ai nostri figli che si, è bello essere baciati dal sole a testa alta, ma guardare in basso ogni tanto ci riporta alla realtà, guardiamo dove camminiamo e, soprattutto, se stiamo calpestando qualcuno o qualcosa.
E il terzo moschettiere? E’ un maschio, adolescente e con gli ormoni impazziti, quindi va dietro alla figa, ma in questo caso sarebbe meglio dire alle fighe!
L’età dell’apparenza
Pubblicato il 27 ottobre 2019 5 commenti

Oggi la quindicenne è uscita senza telefono, non perché lo abbia dimenticato, ma perché suo padre le ha imposto qualche ora di stacco dall’aggeggio infernale e lei ha scelto le ore in cui esce con le amiche: così suo padre è felice perché pensa che lei accetti le sue regole e lei è ancor più felice perché ha gabbato il padre facendo finta di accettare le regole ( rientrerà a casa e l’aggeggio infernale ritornerà a incollarsi alla sua mano per continuare le infinite conversazioni con le amiche…) e vissero tutti felici e contenti! Quando è fuori lo usa meno, sicuramente solo per chiamarmi e implorarmi di andarla a prendere, o di poter rimanere ancora un po’ fuori, o di poter cenare dall’amica, o di poter portare l’amica a cena qui, insomma, fuori casa il cazzeggio telefonico viene messo in standby. Così accanto a me ho il suo strumento del potere, acceso ma inaccessibile da ogni tipo ti password provata, con schermo ridotto a una ragnatela, dagli urti della sua vita, che ogni tanto si accende mostrando notifiche varie, di messaggi, di avvisi, notifiche di notifiche, scadenze di avvisi, dirette instagram, gruppi attivi e in vena di attivarsi, insomma, un vero e proprio concerto di suonerie visto che, la quindicenne, differenzia i suoni a seconda di chi manda cosa e, soprattutto, ha il vizio di dare a tutti i componenti della sua rubrica un nomignolo seguito da immagine ridicola o ritoccata per renderla tale. Ieri mattina è uscita con le amiche per cambiare una maglia e, dopo un po’, sua sorella, avendo bisogno di un’informazione, l’ha chiamata al telefono, io ero nelle vicinanze e mi sono alquanto stupita che il linguaggio usato non fosse il solito, anzi, la sedicenne sembrava gentile e pacata, ha pure ringraziato a fine telefonata, per poi mettersi a ridere una volta riattaccata la conversazione: la quindicenne aveva dimenticato il telefono in un negozio di una nota catena di prodotti per il make-up e la gentilissima commessa ha risposto alla telefonata, così come ha risposto a tante altre telefonate che sono arrivate mentre il telefono era li, quindi era ilare molto ilare nell’avvisarci che aveva chiamato anche Spazzoletta, Mocio in menopausa, Troione, Montone, Lagna, Vodka e pure Papi o Papozze. Io, nella sua rubrica, sono “La mami” e ho l’immagine del suo piede che ricopre la mia faccia, sua sorella è stata catalogata con foto rubata in un suo momento di intimità digestiva e suo padre è stato photoshoppato rendendo la sua faccia tonda, liscia, rosea, come un didietro.
Come predetto, in questo momento ho ricevuto una telefonata da un numero che non ho in rubrica: era la quindicenne che chiedeva chi andasse a prenderla e cosa avessi intenzione di fare per cena, ah, si è anche raccomandata di mettere il suo telefono in carica perché il momento del ricongiungimento sta per arrivare e deve aggiornare Spazzoletta, Mocio in menopausa e Vodka visto che non erano con lei.
Questa è l’adolescenza di oggi, tutto è fake, anche i nomi, le immagini e i contenuti, ma era meglio prima o è meglio adesso? Secondo me anche noi adulti, se avessimo avuto gli stessi strumenti e gli stessi contesti di oggi, avremmo fatto le medesime cose, cioè, l’adolescenza rimane pur sempre un’età critica, pesante e inquietante per chi non la vive direttamente ma la subisce indirettamente, a prescindere dall’epoca in cui si vive, rimane un’età in cui si ha voglia di crescere, di non pensare, di essere leggeri ma con dubbi pesanti per chi la vive direttamente, non cambiamo la parte emotiva di ciò che siamo; è un po’ come essere su una giostra che gira: a noi sembra di muoverci, ma in realtà siamo fermi, rimaniamo noi, è il mondo fuori che si muove, ma se lo fa troppo in fretta, però, rischiamo di cadere dalla vertigine che provoca il non riuscire a fermare ciò che ci appare davanti.
E’ tutto ok!
Pubblicato il 17 ottobre 2019 5 commenti

Ci siamo, mancano poche ore e il mio braccio sarà libero dal gesso! Mi sento come un bambino in attesa di Babbo Natale: eccitazione, ansia, speranze, domande e paura. Si, paura, quella che mi frega da qualche tempo, paura che non sia finita e che, come da troppo tempo ormai, devo continuare a rimandare la vita che vorrei a giorni migliori.
Proprio fra qualche giorno festeggio tre anni di vita dura, tutta in salita, senza una pausa di serenità per tirare il fiato, e di fiato proprio non ne ho più. La mia vita è cambiata in una tiepida sera di fine ottobre, quando mio marito, con estrema serenità, mi ha annunciato che, avendo una relazione con un’altra donna, sarebbe andato a vivere con lei entro un paio di giorni ( forse il tempo di lavare e asciugare tutta la sua roba?). Per me è stato un fulmine a ciel sereno, non mi ero accorta di niente, anzi, siamo sempre stati una coppia affiatata con, forse solo per me, un bel legame solido. Mi è mancato il respiro, mi mancata la terra sotto i piedi, non riuscivo a capire se fosse un brutto incubo dal quale mi sarei svegliata al più presto. Invece l’incubo era realtà e la realtà, nei giorni successivi, sembrava peggiore di qualsiasi incubo: ho passato mesi senza mangiare né dormire, ho sopportato e gestito le telefonate e i messaggi minacciosi dell’amante ( una vera signora!), ho cercato di far vivere alle mie figlie una vita normale, non ho minacciato, non ho urlato, non ho fatto nessun genere di guerra, ma è stata dura. Mi odiavo, mi sentivo un essere indegno di affetto perché non avevo niente che andava in me, mi reputavo un errore umano.
Mi sono ritrovata completamente sola, da quando erano morti i miei genitori, mio marito era diventato tutta la mia famiglia e, senza di lui, mi sentivo per la prima volta orfana. Si, c’era mia sorella, ma il suo caratteraccio mi allontanava e nel momento del bisogno, bisogno di una spalla, di conforto, di qualcuno su cui contare, ha solo snocciolato richieste e chiestomi sacrifici per poter far fronte alle sue necessità ( il classico mors tua vita mea). Così, dopo mesi di terapia psicologica per non implodere e ritrovato amore per la vita, la mia nuova vita, ero pronta a lasciare il gelo di un inverno difficile per farmi baciare dal sole di una nuova estate.
Mi ricordo bene anche quella mattina di inizio giugno, ero serena, niente poteva più riaprire ferite che stavano rimarginandosi; avevo ricevuto una raccomandata scritta dall’avvocato di mia sorella che mi aveva solo fatto sorridere per il grado di meschinità celato da un linguaggio troppo giuridico, avevo anche ricevuto l’ennesimo messaggio di minaccia dalla solita signora, preoccupata che rivolessi indietro il suo “gioiello”, a cui non avevo risposto perché non volevo più saperne di loro, della loro vita, dei loro litigi e delle bugie che si dicevano reciprocamente, non era più affar mio, che si azzannassero fra di loro…insomma, era un momento zen, momento di ottimismo e serenità, ma pur sempre momento che, per sua definizione, dura poco o poco più. Sempre quella mattina, durante un’ecografia fatta per un problema a un braccio, l’ecografista scrupoloso decide di dare un’occhiata un po’ ovunque e, nel giro di un paio d’ore avevo già in mano l’appuntamento con il chirurgo per il giorno successivo e in testa caos e paura, anzi, terrore.
“Signora, è sola o è venuta accompagnata?” mi chiese il medico che una settimana prima mi aveva fatto una biopsia, ” Sono da sola, dica pure”, “Avrei piacere di parlarle in presenza di qualche parente, non ha nessuno disponibile?”, “No, ho solo due figlie non troppo grandi né troppo piccole e non credo che possano capire quello che deve dirmi più di me!”. “Signora, lei ha il cancro, anzi, ne ha due, ha due carcinomi molto aggressivi che vanno asportati al più presto”, ” Ok, lo avevo intuito, ho già appuntamento con il chirurgo, grazie.” Sinceramente quell’uomo mi aveva innervosita, non per la notizia, ma per il modo un po’ maschilista nel voler affrontare il discorso con qualche parente, come se io non fossi stata in grado di recepire le sue informazioni, così ringraziai e mi diressi verso la porta, “Signora, ma ha capito cosa le ho detto?”, “Certo!”, “Non mi sembra, si rende conto di cosa dovrà affrontare e che non è detto che riesca a farcela?”, cavolo che tatto! Certo che me ne rendevo conto, sono cresciuta con la parola “cancro” che aleggiava per casa, i miei genitori erano morti proprio per questa specie di mostro mangiavite, ma disperarmi, piangere, lasciarmi prendere dallo sconforto mi avrebbe guarita? ” Signora, torni indietro, lei non capisce che ha due cancri?”, Mi girai verso di lui proprio mentre varcavo la soglia e, tranquillamente gli risposi: “Due cancri, e allora? Ho due figlie, due cani, due gatti, due conigli e due cancri, c’è di peggio nella vita, pensi che dramma se avessi anche due mariti!”, mi girai e me ne andai lasciando il medico molto basito per la mia risposta.
Quando si affronta una separazione e una malattia contemporaneamente si è concentrati sul riuscire a limitare i danni, sull’organizzarsi per la gestione delle figlie e della casa, le amiche di sempre, quelle che da trenta e passa anni hanno condiviso con me un pezzo di vita mi supportavano, mi davano la certezza che sarebbe stato facile e che non sarei stata sola. Invece sola mi ci sono ritrovata, nel momento peggiore, quando, dopo qualche giorno da un intervento non affatto facile, le mie figlie sono partite per le vacanze col padre, le loro prime vacanze senza di me e la mia prima volta senza di loro. Giravo per casa bardata di borsetta in cui tenere il contenitore del drenaggio che era ancora attaccato al mio corpo tramite un tubo, con il braccio destro ko dallo svuotamento dei linfonodi già attaccati da metastasi, con la tetta operata più grossa di quella sana, infiammata, dolorante e martoriata da una lunga cicatrice che a me pareva come una trincea delimitante un campo di guerra; a giorni alterni mi recavo in ospedale per svuotare il bombolotto del drenaggio, per farmi siringare altro liquido dalla tetta che si formava incessantemente provocandomi dolore e febbre, da sola, guidando, anche se mi avevano proibito di farlo, ma non avevo alternative, le amiche che si erano messe a disposizione per aiutarmi, a parole, erano sparite, perché, a detta loro, dovevo starmene un po’ sola per stare meglio…Intanto ho trascorso settimane, poi mesi, imparando ad arrangiarmi, a gestire una febbre che non se ne andava mai, a farmi forza mentre mi rigiravano come un calzino in cerca del motivo, a sopportare i molteplici effetti indesiderati delle terapie, dei farmaci, del veleno che devi ingoiare per essere sicura che il mostro se ne sia andato definitivamente e che non rimanga nessuna traccia della sua permanenza dentro di me. Il mio ex marito mi ha aiutata, e io ho lasciato che lo facesse perché in certi casi la necessità supera l’orgoglio (e si abbandona il pregiudizio), mi accompagnava a fare le terapie e le visite, io non mi sono mai sentita così sfinita come in quei mesi: dormivo, come chi è dovuto stare sveglio per un giorno intero, prendevo antidolorifici per attutire il dolore acuto e costante alle ossa causato da tutte le cure, non riuscivo a occuparmi di problemi e incombenze della vita quotidiana, vivevo come se mi avessero chiusa in una bolla, tutto era fuori, tutto era attutito, ogni cosa rimbalzava all’indietro quando cercava di avvicinarsi. Così, vista la mia poca vitalità, le mie care amiche storiche un giorno hanno deciso di creare un gruppo whatsapp in cui ognuna mi dava il ben servito come amica essendo tutte d’accordo sul fatto che io non riuscivo più a essere d’aiuto nella gestione ed esternazione dei loro problemi perché ero troppo concentrata sui miei che, a detta loro, ritenevo più importanti. E’ stato lo stesso dolore e stupore provato quando il mio ex marito mi annunciò la sua uscita da casa…Ma, con la consapevolezza che nella vita c’è di peggio, non mi sono persa d’animo e ho consolidato amicizie nate da poco e ne ho fatte di nuove, trovando persone meravigliose che mi hanno fatto ( e tutt’ora lo fanno) sentire amata così come sono, per quella che sono…
La vita va vanti, nolente o volente, si sopravvive per vivere, si sopporta per assuefarsi, io mi sono abituata ai miei dolori, alla mia stanchezza, alle braccia molli, alla tetta dimezzata, bruciata e dolorante dalle radiazioni, alle polmoniti che si susseguivano e ancora lo fanno; ogni volta che penso di stare meglio e di poter cominciare finalmente quella nuova vita che ero pronta ad affrontare e che è stata messa in standby, arriva qualcosa che mi ferma e mi fa sperare in momenti migliori. A maggio, quando l’oncologa mi disse che tutto stava andando bene, avevo cominciato a tirar fuori i miei progetti di vita, avevo voglia di muovermi, di andare al mare, di scorrazzare in bicicletta, ma la solita polmonite mi ha fregata e fermata, vabbè, tanto poi passa e io ricomincio a sognare, ma un mese di antibiotici avevano causato dei danni e tac, il tendine del pollice si è rotto come un grissino che taglia il tonno, vabbè, che sarà mai, è un pollice…ma poi mi sono resa conto che la conquista del pollice opponibile, oltre che a distinguerci dalle scimmie, ha una sua funzione importante e via, unica soluzione un bel trapianto di tendine, ma si, che sarà mai…devo smetterla di dirlo…il giorno dell’intervento mi è esploso il fuoco di Sant’Antonio e tutto è stato rimandato, vabbè, meglio no? Come avrei sopportato un mese di gesso in piena estate? Ma si, godiamoci sto fuoco che c’è di peggio. Finalmente, dopo un mese e mezzo mi ritrovo in sala operatoria, pronta ad affrontare l’intervento ( era venerdì 13 settembre, non mi sono fatta prendere da dubbi scaramantici…)
Ecco perché sono emozionata ma ho paura, paura che la mia vita sia come la canzone di Branduardi ” Alla fiera dell’est”: un insieme di sfighe infinite incatenate fra loro, che la vita messa in standby sia invecchiata e diventata inutilizzabile. Senza il gesso è un bel passo avanti nella riconquista della piena autonomia ( voglio guidareeeee!!!), ma è anche la paura di dover affrontare qualcosa di nuovo, magari è un qualcosa di bello, ma se poi arriva il gatto che si mangia il topo e il cane che si mangia il gatto e il bastone che picchia il cane e il fuoco che brucia il bastone e l’acqua che spegne il fuoco e il bue che beve l’acqua e l’uomo che uccide il bue e….e che palle, io voglio crederci, anzi ne sono convinta: è tutto ok!!
Il pozzo delle donne
Pubblicato il 10 ottobre 2019 8 commenti

Pubblico qui sotto una lettera, scritta moltissimi anni fa, che mi ha fortemente colpita per essere, purtroppo, ancora attuale.
Io conosco quel pozzo, ne sto uscendo a fatica, ma in quante sono ancora intrappolate laggiù?
L’altro giorno m’è capitato fra le mani un articolo che avevo scritto subito dopo la liberazione e ci sono rimasta un po’ male. Era piuttosto stupido: quel mio articolo parlava delle donne in genere, e diceva delle cose che si sanno, diceva che le donne non sono poi tanto peggio degli uomini e possono fare anche loro qualcosa di buono se ci si mettono, se la società le aiuta, e così via. Ma era stupido perché non mi curavo di vedere come le donne erano davvero: le donne di cui parlavo allora erano donne inventate, niente affatto simili a me o alle donne che m’è successo di incontrare nella mia vita; così come ne parlavo pareva facilissimo tirarle fuori dalla schiavitù e farne degli esseri liberi. E invece avevo tralasciato di dire una cosa molto importante: che le donne hanno la cattiva abitudine di cascare ogni tanto in un pozzo, di lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro, e annaspare per tornare a galla: questo è il vero guaio delle donne.
Le donne spesso si vergognano d’avere questo guaio, e fingono di non avere guai e di essere energiche e libere, e camminano a passi fermi per le strade con bei vestiti e bocche dipinte e un’aria volitiva e sprezzante (…) M’è successo di scoprire proprio nelle donne più energiche e sprezzanti qualcosa che mi indiceva a commiserarle e che capivo molto bene perché ho anch’io la stessa sofferenza da tanti anni e soltanto da poco tempo ho capito che proviene dal fatto che sono una donna e che mi sarà difficile liberarmene mai.
Ho conosciuto moltissime donne, donne tranquille e donne non tranquille, ma nel pozzo ci cascano anche le donne tranquille: tutte cascano nel pozzo ogni tanto. Ho conosciuto donne che si trovano molto brutte e donne che si trovano molto belle, donne che riescono a girare i paesi e donne che non ci riescono, donne che hanno mal di testa ogni tanto e donne che non hanno mai mal di testa, donne che hanno tanti bei fazzoletti e donne che non hanno mai fazzoletti o se li hanno li perdono, donne che hanno paura d’essere troppo grasse e donne che hanno paura d’essere troppo magre, donne che zappano tutto il giorno in un campo e donne che spezzano la legna sul ginocchio e accendono il fuoco e fanno la polenta e cullano il bambino e lo allattano e donne che s’annoiano a morte e frequentano corsi di storia delle religioni e donne che s’annoiano a morte e portano il cane a passeggio e donne che s’annoiano a morte e tormentano chi hanno sottomano, e donne che escono il mattino con le mani viola dal freddo e una sciarpetta intorno al collo e donne che escono al mattino muovendo il sedere e specchiandosi nelle vetrine e donne che hanno perso l’impiego e si siedono a mangiare un panino su una panchina del giardino della stazione e donne che sono state piantate da un uomo e si siedono su una panchina del giardino della stazione e s’incipriano un po’ la faccia.
Ho conosciuto moltissime donne, e adesso sono certa di trovare in loro dopo un poco qualcosa che è degno di commiserazione, un guaio tenuto più o meno segreto, più o meno grosso: la tendenza a cascare nel pozzo e trovarci una possibilità di sofferenza sconfinata che gli uomini non conoscono forse perché sono più forti di salute o più in gamba a dimenticare se stessi e a identificarsi con lavoro che fanno, più sicuri di sé e più padroni del proprio corpo e della propria vita e più liberi. Le donne incominciano nell’adolescenza a soffrire e a piangere in segreto nelle loro stanze, piangono per via del loro naso o della loro bocca o di qualche parte del loro corpo che trovano che non va bene , o piangono perché pensano che nessuno le amerà mai o piangono perché hanno paura di essere stupide o perché hanno pochi vestiti; queste sono le ragioni che danno a loro stesse ma sono in fondo solo dei pretesti e in verità piangono perché sono cascate nel pozzo e capiscono che ci cascheranno spesso nella loro vita e questo renderà loro difficile combinare qualcosa di serio.
Le donne pensano molto a loro stesse e ci pensano in modo doloroso e febbrile che è sconosciuto a un uomo. Le donne hanno dei figli, e quando hanno il primo bambino comincia in loro una specie di tristezza che è fatta di fatica e di paura e c’è sempre anche nelle donne più sane e tranquille. E’ la paura che il bambino si ammali o è la paura di non avere denaro abbastanza per comprare tutto quello che serve al bambino, o è la paura d’avere il latte troppo grasso o d’avere il latte troppo liquido, è il senso di non poter più girare tanto i paesi se prima si faceva o è il senso di non potersi più occupare di politica o è il senso di non poter più scrivere o di non poter più dipingere come prima o di non poter più fare delle ascensioni in montagna per via del bambino, è il senso di non poter disporre della propria vita , è l’affanno di doversi difendere dalla malattia e dalla morte perché la salute e la vita della donna è necessaria al suo bambino.(…) Le donne sono una stirpe disgraziata e infelice con tanti secoli di schiavitu sulle spalle e quello che dovono fare è difendersi dalla loro malsana abitudine di cascare nel pozzo ogni tanto, perchè un essere libero non casca quasi mai nel pozzo e non pensa così sempre a se stesso ma si occupa di tutte le cose importanti e serie che ci sono al mondo e si occupa di se stesso soltanto per sforzarsi di essere ogni giorno più libero. così devo imparare a fare anch’io per la prima perché se no certo non potrò combinare niente di serio e il mondo non andrà mai avanti bene finché sarà così popolato d’una schiera di esseri non liberi.”
Natalia Ginzburg
(Lettera pubblicata sulla rivista Mercurio nel 1948)
CHE IL CAOS SIA CON ME
Pubblicato il 9 ottobre 2019 4 commenti

Questo sito è nato dall’obbligo impostomi di stare ferma per poco più di un mese. I primi giorni di fermo obbligatorio mi sentivo bene, rilassata, in pace con il mondo, quasi in vacanza: avevo l’autorizzazione, anzi l’obbligo, del medico per farmi servire e riverire! Sicuramente gli antidolorifici amplificavano il mio stato di benessere e mi regalavano grandi dormite sul divano, poi, quando ho cominciato ad averne sempre meno bisogno, la mia serenità è sparita ed è tornato il mio essere caotico, ansioso e confusionario, praticamente mi sono risvegliata da un breve letargo e mi sono ritrovata a dover fare qualcosa per passare il tempo. Ho letto, ho esaurito vite su ogni tipo di gioco caricato sul tablet, ho ascoltato programmi televisivi di ogni genere, mi sono sentita vecchia quando mi sono accorta che ciò che ritenevo noioso fino a qualche anno fa, non lo era più adesso; tutto questo non ha fatto altro che aumentare la mia sensazione di “animale in gabbia”, ho spento tutto, ma non il cervello, e mi sono decisa a fare quello che mi è sempre piaciuto fare, quello che tanti anni fa facevo quotidianamente: scrivere.
Sono stata una blogger negli anni in cui lo si era per passione della scrittura e della tecnologia, non esistevano ancora nomi famosi del settore, non si guadagnava né soldi né fama, ma solo scambi di idee e opinioni. Poi la vita mi ha tolto sempre più tempo a ciò che volevo fare regalandolo a ciò che dovevo fare, non ci si accorge del passare del tempo quando si è risucchiati in un vortice. Nel frattempo il sito che ospitava il mio blog è cambiato, ha cambiato regole e, quando ho riavuto il coraggio di ricominciare a dilettarmi, mi sono ritrovata in un posto che aveva chiuso i battenti ( e i blog) a chi non aveva un nome noto e aperto gli stessi a firme diventate icone di stile, moda e idee…
I treni si perdono, ma non per questo si deve rimanere a piedi, no? Ho riaperto un mio blog su altra piattaforma, ma forse il momento era sbagliato, forse ero alquanto presa e sommersa da troppi problemi personali, e ho peccato di sincerità scatenando ire funeste di lettori/amici/parenti, ecc..Praticamente è stato come se avessi sempre amato sciare e un giorno qualcuno, qualcosa, chissà, mi avesse fatto volontariamente ruzzolare a terra e io, invece di rialzarmi e continuare scrollandomi la neve di dosso, mi fossi fermata li, a terra, a incolpare me stessa per aver creato un avvallamento, aver rovinato la neve, aver potuto recare disagio a chi stava seguendo le scie che lasciavo, insomma, io ferma e il mondo continuava, la vita continuava, c’era chi sciava e si divertiva senza preoccupazioni di sorta.
Ecco, sto cominciando a farmi conoscere…ragionamenti contorti, esempi confusi?
In questi giorni ho ripreso il computer in mano, ho dato un’occhiata in giro, ho lasciato alle spalle ciò che è stato, mi sono battuta il cinque per aver finalmente amato me stessa, ed eccomi qui! Unico problema è l’avere un braccio ingessato e, ahimè, da qualche giorno pure il colpo della strega…quindi immaginatemi a scrivere con una mano sola (l’altra la devo pure tenere in alto altrimenti mi fa male), con una serie infinita di cuscini messi in posti strategici, mentre cerco di dare un aspetto decente al sito e, ok, lo so, non ci riesco, ma al diavolo, se non ora lo potò fare più avanti, l’importante è ricominciare a lasciare una scia…
Se qualcuno vuole darmi consigli sappia che non aspetto altro!