Destino da calendario
Pubblicato il 11 novembre 2019 2 commenti

Oggi è l’11 novembre, San Martino, ma non c’è nebbia che copre gli irti colli, solo tanto, tantissimo vento che sta dando un po’ di tregua dalla pioggia. Qui il paese è, più o meno, in festa patronale, le bancarelle sono state allestite per il fine settimana quindi oggi è solo un lunedì come tutti i lunedì? Fino a qualche anno fa per me era un giorno da festeggiare con cena romantica per due, era il nostro anniversario, non di matrimonio, ma del primo bacio.
Era già l’11 novembre perché la mezzanotte era passata da poco, 31 anni fa, era una sera tiepida, di quel tepore strano che novembre regala ogni anno. Come succedeva da molto tempo io e lui eravamo usciti per bere qualcosa, fare quattro chiacchiere e passeggiare davanti a vetrine illuminate, era una normale consuetudine, eravamo molto amici, il mio migliore amico, quindi, anche quando uscivamo con i pochi rimasti di una compagnia che si stava sgretolando pian piano, man mano che l’età cresceva, io e lui ci ritagliavamo un nostro spazio, a fine serata, per raccontarci della nostra settimana, per farci un po’ di risate ironizzando sugli accadimenti peggiori. Era il momento migliore della serata, quello più leggero. Quella sera, visto che qualche settimana prima era riuscito a convincermi che sapeva fare a maglia ( cavolo, citava anche i punti ad hoc, come non cascarci!) per poi, alla mia richiesta di un bel maglioncino, confessare tra mille risate che non era vero niente e che era troppo divertente vedermi credere a ciò che diceva, avevamo instaurato una discussione circa l’esistenza o meno di un laghetto con cigni e papere in un paese confinante: io non l’avevo mai visto e nemmeno avevo sentito parlarne, lui ne giurava l’esistenza, raccontandomi aneddoti e dando indicazioni precise su ciò che sorgesse accanto a questo pezzetto di stagno. Pensando di sbugiardarlo, vista la vicinanza del posto in questione, gli chiesi di portarmici e, porca paletta, aveva ragione: nel buio della notte i lampioni riflettevano su uno specchio di acqua recintato, non molto grande, sui bordi lambiti dall’acqua se ne stavano accovacciati, con muso sotto l’ala, qualche cigno e qualche papera. Con la scusa di indicarmi l’unico pennuto sveglio, mise il braccio intorno alle mie spalle e mi baciò. Lo lasciai fare perché era un bel momento ma, quando rientrai a casa, ero pentita, confusa, mi chiedevo se avessi rovinato una bella amicizia, insomma, non ero molto convinta che potesse nascere qualcosa di serio. Il giorno seguente si presentò con un mazzo di fiori e un invito a uscire. Nonostante lo avessi messo al corrente dei miei dubbi e della voglia di non rovinare la nostra amicizia lui sembrava determinato e mi rispose con un “Vedrai, riuscirò a farti cambiare idea.”
Ci riuscì, anche bene, la nostra amicizia non venne intaccata, anzi, sembrava fare da solida base a ciò che stavamo costruendo. Lui mi riempiva di attenzioni, di fiori, mi faceva sorprese continue, giocavamo, ridevamo, parlavamo e non ci accorgevamo del tempo che passava. E’ stata una bellissima storia d’amore durata 29 anni, fino a quando non è andato a cercar rogna altrove, tra braccia diverse dalle mie, lasciandomi, stupita, incredula ma ancora innamorata.
Ecco, oggi è l’11 novembre e 31 anni fa non avrei mai pensato che una data potesse celare un amaro destino…non so se anche altrove c’è la stessa ricorrenza, ma da queste parti, questo viene chiamato il giorno dei cornuti.
Beh, almeno posso continuare a festeggiare qualcosa nel medesimo giorno!
Cattivi pensieri
Pubblicato il 2 novembre 2019 5 commenti

Ogni giorno le solite cose: scuola, casa, pulizie che sembrano missioni impossibili, rogne, file…ancora scuola, cucinare, ripulire di nuovo, diventare giudice di pace ( senza riuscirci), psicologa, cameriera, autista, ricucinare, ripulire per l’ennesima volta, ancora cercare di dirimere le controversie assurde di due adolescenti femmine ( i maschi si limitano a cercare di arginare silenziosamente le loro tempeste ormonali, le femmine, a questa età, parlano, parlano ancora, urlano, piangono, cantano e, soprattutto, discutono su tutto) e, quando finalmente la casa dorme e mi ritrovo da sola penso alla fatica che sto facendo, a quanto mi servirebbe un lavoro, ai curricula che ho mandato a mezzo mondo e che, sicuramente, sono stati cestinati, insomma, in questo paese si fa fatica a essere una donna/mamma/single/disoccupata.
Stamani, mentre riportavo il mio carico di tre adolescenti a casa, ho incontrato sulla mia strada, solitamente poco trafficata in questa stagione, mille intoppi causati da anziani al volante…
Non se ne abbiano a male gli over 70, ma non penso di essere l’unica a chiedersi perché, se sei anziano e traballante e i riflessi si sono scordati di te da un po’ di tempo, ti devi comprare un mega suv che non riesci a guidare, che non riesci a parcheggiare, di cui non riesci a valutarne le misure e ti incastri in stradine strette prendendotela con chi le ha ideate…perché? Perché, voi persone mature, oltre che di prendere le medicine, vi scordate di mettere la freccia quando svoltate? Perché poi frenate improvvisamente, senza che davanti a voi ci sia un ostacolo? Forse perché vi siete appena ricordati quella cosa che dovevate fare, tipo, svoltare 200 metri fa? E le vecchiette? Anche loro, seppur osano auto meno ingombranti, riescono a seminare il panico stradale. Vi è mai capitato di incontrare, proprio quando siete in ritardo e avete una fretta tremenda, la classica macchina lumaca che va a 20 km/h ma stando nel mezzo in modo da essere insuperabile? E quelle che girano con le amiche e che, appena avvistano un parcheggio, frenano per farle scendere improvvisandosi parcheggiatrici e, per entrare in un posto in cui starebbe comodo anche un tir, fanno mille manovre creando una fila immensa dietro di loro e se qualcuno osa suonare un clacson, loro agitano la mano con molta flemma, come la regina Elisabetta? Chi si ritrova un vecchietto davanti ha una percentuale di finire coinvolto in un terribile incidente più alta del normale.
Insomma, mentre cercavo di scartare tutte queste specie di esperti guidatori, con i tre adolescenti che mi incitavano alla strage, mi è venuta un’idea geniale che potrebbe risolvere tutti i problemi finanziari di questo paese: finchè i vecchietti guideranno macchine grosse e indistruttibili usciranno sempre indenni dagli incidenti che creano, giusto? Perché non mettere l’obbligo che, dopo una certa età, debbano guidare solo apette o quelle micromacchine pericolose? Sono crudele? Però pensateci…ora tantissimi ragazzini si muovono con delle macchinine assurde che sono pericolosissime e mortali anche con un semplice tamponamento, perché mettere a rischio i giovani che devono costruire un futuro? Invertiamo le parti, diamo il rischio a chi ha già dato nella vita…l’Inps riuscirà a coprire le voragini pensionistiche, la disoccupazione calerebbe portandoci a cominciare ad amministrare questo paese in un’ottica più giovane visto che, secondo il mio ragionamento, anche la classe politica potrebbe essere sfoltita…e di parecchio! Potrei trovare lavoro…magari!
Vabbè, lo so, sono cinica, non devo pensare a queste cose soprattutto perché tutti noi diventeremo vecchi e non vorremmo certo essere trattati da condannati a morte, però, proprio mentre ridevo dei mie cattivi pensieri, ecco che davanti mi si propone un’altra lunga fila di macchine, cerco di vedere se è un problema di traffico ma mi accorgo che, in mezzo alla strada, ci sono tre macchine distrutte, due autoambulanze e un taxi…sul taxi c’è salita la vecchietta che aveva causato l’incidente, gli altri due guidatori li hanno caricati sulle ambulanze che sono partite a sirene spiegate…ognuno tragga le sue conclusioni, a me viene da riderci su!
(Di)mostra ciò che sei
Pubblicato il 31 ottobre 2019 Lascia un commento

Ieri sera, sempre accompagnata dalla mia cara e vecchia emicrania, ho guardato il programma della Bignardi, “L’ Assedio” sul canale 9, senza mettere troppo interesse ho ascoltato la canzone di una rapper milanese, a me sconosciuta ma nota alla quindicenne. Sinceramente non amo molto quel genere di musica, ma, costretta dalla figlia, ce l’ho nelle orecchie tutto il giorno, quindi forse parto già con un po’ di dente avvelenato, ma confesso che non ho proprio capito il senso dell’intervista. La cantante Myss Keta aveva il viso coperto da un pezzo di stoffa/lamè e mia figlia mi ha spiegato che è sempre a viso coperto, nessuno l’ha mai vista senza il suo bolerino parafaccia, ok, ho pensato, l’anonimato attira curiosità e fans, niente di strano visto che non è la prima, e non sarà certo l’ultima, a usare questo escamotage, ma l’immagine di mistero e curiosità sulla sua identità non collimava con quello che diceva. In sintesi, queste sono le sue affermazioni:
“È difficile stimarsi e accettarsi nelle proprie molteplicità. Penso di avere capito che una persona è molte cose, non esiste un solo aspetto, non esiste la persona che va in ufficio, che vive la famiglia, che esce la sera, che vede i suoi amici. Esistono tutti questi aspetti. Noi tutti siamo una moltitudine, e dobbiamo accettarci nella nostra moltitudine. Non è semplice, ma, una volta che riesci a fare questa operazione, è come se ti si liberasse il cervello. A un certo punto capisci che molti condizionamenti e molte gabbie che ti sei messa nel corso della tua vita in realtà te le sei posta tu stessa…L’accettazione di se stessi è il punto focale. Nel momento in cui ti accetti, includi.”
Insomma, il suo manifesto è cercare di convincere tutte le ragazze a essere se stesse al 100%…allora perché si nasconde? E’ fiera di essere se stessa, di accettarsi in tutte le sue molteplicità e perché lo fa dietro una maschera? Chi è fiero di essere se stesso non si nasconde, anzi, vuole mostrare quello che è senza problemi. Ho chiesto alla quindicenne cosa pensasse, esponendole le mie perplessità, e mi ha risposto con un “Mamma sei troppo vecchia per capire, se lei vuole nascondersi il viso a te cosa importa? E’ libera di fare quello che vuole, anche il nascondersi è indice di accettazione di se!”. Non lo so, a me non sembra, anzi mi sembra proprio un paradosso. Se la maschera ci ha sempre coperto, per comodità, per inclusione, per conformismo o per paura, quando ti liberi da tutto quello che ti imponeva di essere uno, nessuno e centomila, la maschera la butti, la bruci come le femministe bruciavano i reggiseni simbolo, per loro, di costrizioni sessiste ( poi le stesse, arrivate a una veneranda età, si sono accorte che il reggiseno non è costrizione, ma aiuto contro la legge di gravità…), insomma, fai della tua faccia il simbolo del manifesto che stai propagandando, no?
Sicuramente ognuno è libero di fare quello che vuole, sono la prima che difende la libertà in ogni campo, ognuno è libero di fare cazzate ( sempre che non vadano a ledere la libertà altrui), di cavalcare l’onda di un momento storico in cui l’apparire conta più dell’essere, ma non è come l’apparire degli anni ’80 in cui era una sorta di apparenza formale, ben catalogata in specie e sottospecie, qui si parla di un apparire caotico, senza identificazioni in categorie, basta apparire, avere like, followers, twittate con il proprio nome seguite dal cancelletto ( che cavolo, fino a che non è spuntato twitter è sempre stato chiamato cancelletto, ora non si può, perché deve assumere nuova identità anche lui?). Non sto dando un giudizio da vecchia nostalgica del tipo “Ai miei tempi era meglio”, “Una volta si che esistevano gli ideali” o peggio “Si stava meglio quando si stava peggio” perché altrimenti potrei concludere la mia elucubrazione con un bel “Non esistono più le mezze stagioni” ( e ho una gran paura che Greta mi attaccherebbe un pippone per spiegarmene il motivo), cerco solo di capire cosa significhi essere se stessi, lontano da riflettori e social.
La puntata è proseguita con una fantastica Michela Murgia, che ha dimostrato quanta forza c’è dietro a una donna e ha affondato il coltello, spero, per svegliare molte menti assopite e intorpidite dalla comodità di pensieri pigri, ma è stata con la successiva intervista al sindaco di un paesino pavese che ho avuto risposta alle mie domande: lui è se stesso, ha lottato per esserlo e non si è nascosto dietro drappi colorati, ci ha messo la faccia, una faccia che è rassicurante e ispira fiducia, a tal punto che tutto il suo paese ha votato per lui, vecchi, giovani, followers o no, sono stati tutti d’accordo nel consegnare l’amministrazione del paese nelle sue mani, nelle mani di un uomo che si chiama Gianmarco Negri: https://www.youtube.com/watch?reload=9&v=_1LUrEaQhdI ecco, questo uomo è se stesso al 100%. Senza filtri televisivi, con coraggio e sensibilità, questo è il messaggio che spero che mia figlia abbia percepito nel guardare la trasmissione con me, anche se la sua attenzione era più verso le schermo del telefono e i messaggi che le arrivavano per organizzare la serata in discoteca di stasera.
L’emicrania mi ha distrutta a tal punto che mi sono addormentata (finalmente) e ho perso il resto della puntata, stamani però mi sono svegliata con la testa leggera, voglia di fare mille cose e la mano gonfia e dolorante ( non posso pretendere la perfezione), nella mente avevo ancora ben chiare alcune frasi della Murgia e del sindaco Negri e ho sorriso a me stessa, con beatitudine, perché è così che mi fanno sentire le belle persone. In questo momento il sorriso e la beatitudine sono scappati all’estero: ho cinque adolescenti che si stanno preparando per la serata in discoteca, la camera della quindicenne sembra “Il salone delle meraviglie”, la musica è assordante ma le loro urla la sovrastano, si truccano, cantano, ridono e twerkano, ahimè, si, twerkano pure bene e la quindicenne sembra che sia nata per farlo…ognuno vuole mostrare il meglio di sé: chi la faccia, chi il sedere, chi il cervello e chi ci lascia immaginare cosa potrebbe essere il meglio di se!
A testa china
Pubblicato il 29 ottobre 2019 10 commenti

A testa china, anche se da due giorni mi scoppia, come se avessi un martello pneumatico dentro, a testa china per non inciampare, per osservare da un altro punto di vista, per volare basso, a testa china per ammettere errori, colpe, distrazioni e chiedere scusa. Non è poi così difficile.
Ieri avevo febbre, emicrania e dolori in ogni dove, ma anche la riunione scolastica annuale, quindi, accompagnata da un’amica, nonché madre di un compagno di classe della sedicenne, mi sono recata a scuola delle figlie, già con un sentore di ansia visto che la mattina avevo ricevuto una chiamata dalla segreteria in cui mi si avvisava che un’insegnante della quindicenne mi aspettava il giorno dopo per un colloquio. Benché la mia mole potrebbe consentirlo, non sono ancora riuscita nell’intento di sdoppiarmi, quindi, visto che ogni classe aveva la sua riunione alla stessa ora, vigliaccamente mi sono recata nella classe della sedicenne, avvisando che sarei andata in quella della quindicenne il prima possibile. Eravamo in quattro più l’insegnante, come sempre, ed è stato rapido e indolore, anche perché le problematiche della classe sono sempre le stesse da quattro anni ormai, ma, sempre da quattro anni, i genitori che dovrebbero prendere coscienza della situazione, e rendersi conto che nessuno ancora è riuscito a partorire il figlio perfetto, eludono, svaniscono, diventano entità sovrannaturali di cui si conosce il nome ma non l’immagine. Vabbè. Corro verso l’altra aula ( per fortuna quest’anno sono nel medesimo piano, una in cima e una in fondo al corridoio, ma la falcata almeno è lineare e rapida, lo scorso anno le scale mi avevano fatto arrivare stravolta, sudata e accaldata, un bel figurino di madre), chiedo permesso ed entro. Qui la situazione è diversa, le mamme sono più numerose ma anche stizzite e immusonite. Mi siedo, ascolto le ultime raccomandazioni dell’insegnante e, quando la riunione finisce, chiedo al genitore che ho dietro cosa era stato detto prima del mio arrivo. Mi viene spiegato che hanno fatto presente che c’è un gruppetto di tre alunni che disturba le lezioni, i tre moschettieri chiacchierano, ridono, non rispettano la concentrazione di chi è interrogato e creano in classe un caos tale che gli insegnanti tendono a dare dei compiti in più per punizione, a tutti “azzerando così la meritocrazia”( testuali parole della genitrice stizzita). Visto che la matematica è il mio mestiere, faccio due più due e la somma tra la convocazione per il giorno dopo e le lamentele per il gruppetto mi dà un risultato di assoluta colpevolezza della quindicenne. Alcune mamme, che mi avevano chiesto in prestito la penna, sembravano più disposte al sorriso ma quando, nel restituirmela, mi hanno chiesto di chi fossi genitore, alla mia risposta si sono stizzite e ammutolite. Capo chino. Torno a casa, chiedo spiegazioni alla quindicenne, con il martello nella testa che non va un attimo in pausa, lei fa la faccia stupita, si, ammette di chiacchierare, ammette di ridere, ogni tanto, ma giura di essere una studentessa attenta ed educata, semmai la sua amica, non più del cuore ma di merende si, è più agitata e impertinente. Scommetto che l’amica avrà detto le stesse cose alla madre, ognuna si para le chiappe e io non sono nata ieri, purtroppo, per non capirlo. Mi parte l’embolo, minaccio la dipartita del telefono e, soprattutto l’attesa uscita in discoteca per giovedì sera, ma lei discute, apre dibattiti che io non riesco a gestire perché il martello pneumatico ha deciso di aumentare il ritmo di lavoro.
Stamani, a testa china, sono andata al colloquio con l’insegnante che mi ha confermato l’esatta soluzione della somma che avevo fatto il giorno prima. Le hanno pure buttate fuori dall’aula un paio di volte, i genitori degli altri alunni si stanno lamentando e vorrebbero una punizione esemplare, si, l’amica è la mente, quella che cerca di trascinare mia figlia, quindi, a detta dell’insegnante, basterebbe che prendesse coscienza e amor proprio per togliersi il vello da pecora, ma io sono peggio dell’insegnante, non dò attenuanti alla quindicenne perché credo che abbia un’età tale da poter scegliere se essere pecora o meno, da capire le conseguenze del proprio comportamento, quindi chiedo che vengano divise e messe il più lontano possibile l’una dall’altra, prometto che a casa mi impegnerò nel farle capire che il suo atteggiamento è sbagliato e chiedo all’insegnante che, se dovessero capitare altri episodi di disturbo delle lezioni, non abbia remore a impartire un’adeguata punizione. La professoressa è sollevata, si aspettava un genitore pronto a difendere la figlia a spada tratta, a colpi di denunce e minacce ( vuol dire che ormai questo è diventato il normale comportamento? ), ma ha davanti una genitrice comprensiva e collaborativa, quindi è meno titubante nell’avvisarmi che, al prossimo richiamo, la punizione è già stata decisa: sospensione con obbligo di frequenza e un bel cinque in condotta. Deglutisco, il martello pneumatico ha ricominciato il suo bel turno di lavoro, mi sento l’occhio che balla, ma, impavida, rincaro la dose e suggerisco che la sospensione non sia con obbligo di frequenza scolastica ma con obbligo di servizi sociali in un ricovero per anziani.
A testa china, ogni tanto dobbiamo guardare a terra, chiedere scusa ma con la consapevolezza di aver davvero qualcosa di cui scusarsi, io, sicuramente, ho abbassato troppo la guardia con la quindicenne e devo cominciare a essere una madre più presente ( ma non pressante) nella sua vita scolastica, spiegarle cosa significhi studiare, cosa significhi il rispetto per il prossimo e darle una ripassata di regole di educazione, ma un bagno di umiltà farebbe bene anche a quei genitori che si lamentano di tutto e tutti, quelli che considerano i figli infallibili, quelli che danno sempre la colpa agli altri per le proprie carenze o errori. Insegniamo ai nostri figli che si, è bello essere baciati dal sole a testa alta, ma guardare in basso ogni tanto ci riporta alla realtà, guardiamo dove camminiamo e, soprattutto, se stiamo calpestando qualcuno o qualcosa.
E il terzo moschettiere? E’ un maschio, adolescente e con gli ormoni impazziti, quindi va dietro alla figa, ma in questo caso sarebbe meglio dire alle fighe!
L’età dell’apparenza
Pubblicato il 27 ottobre 2019 5 commenti

Oggi la quindicenne è uscita senza telefono, non perché lo abbia dimenticato, ma perché suo padre le ha imposto qualche ora di stacco dall’aggeggio infernale e lei ha scelto le ore in cui esce con le amiche: così suo padre è felice perché pensa che lei accetti le sue regole e lei è ancor più felice perché ha gabbato il padre facendo finta di accettare le regole ( rientrerà a casa e l’aggeggio infernale ritornerà a incollarsi alla sua mano per continuare le infinite conversazioni con le amiche…) e vissero tutti felici e contenti! Quando è fuori lo usa meno, sicuramente solo per chiamarmi e implorarmi di andarla a prendere, o di poter rimanere ancora un po’ fuori, o di poter cenare dall’amica, o di poter portare l’amica a cena qui, insomma, fuori casa il cazzeggio telefonico viene messo in standby. Così accanto a me ho il suo strumento del potere, acceso ma inaccessibile da ogni tipo ti password provata, con schermo ridotto a una ragnatela, dagli urti della sua vita, che ogni tanto si accende mostrando notifiche varie, di messaggi, di avvisi, notifiche di notifiche, scadenze di avvisi, dirette instagram, gruppi attivi e in vena di attivarsi, insomma, un vero e proprio concerto di suonerie visto che, la quindicenne, differenzia i suoni a seconda di chi manda cosa e, soprattutto, ha il vizio di dare a tutti i componenti della sua rubrica un nomignolo seguito da immagine ridicola o ritoccata per renderla tale. Ieri mattina è uscita con le amiche per cambiare una maglia e, dopo un po’, sua sorella, avendo bisogno di un’informazione, l’ha chiamata al telefono, io ero nelle vicinanze e mi sono alquanto stupita che il linguaggio usato non fosse il solito, anzi, la sedicenne sembrava gentile e pacata, ha pure ringraziato a fine telefonata, per poi mettersi a ridere una volta riattaccata la conversazione: la quindicenne aveva dimenticato il telefono in un negozio di una nota catena di prodotti per il make-up e la gentilissima commessa ha risposto alla telefonata, così come ha risposto a tante altre telefonate che sono arrivate mentre il telefono era li, quindi era ilare molto ilare nell’avvisarci che aveva chiamato anche Spazzoletta, Mocio in menopausa, Troione, Montone, Lagna, Vodka e pure Papi o Papozze. Io, nella sua rubrica, sono “La mami” e ho l’immagine del suo piede che ricopre la mia faccia, sua sorella è stata catalogata con foto rubata in un suo momento di intimità digestiva e suo padre è stato photoshoppato rendendo la sua faccia tonda, liscia, rosea, come un didietro.
Come predetto, in questo momento ho ricevuto una telefonata da un numero che non ho in rubrica: era la quindicenne che chiedeva chi andasse a prenderla e cosa avessi intenzione di fare per cena, ah, si è anche raccomandata di mettere il suo telefono in carica perché il momento del ricongiungimento sta per arrivare e deve aggiornare Spazzoletta, Mocio in menopausa e Vodka visto che non erano con lei.
Questa è l’adolescenza di oggi, tutto è fake, anche i nomi, le immagini e i contenuti, ma era meglio prima o è meglio adesso? Secondo me anche noi adulti, se avessimo avuto gli stessi strumenti e gli stessi contesti di oggi, avremmo fatto le medesime cose, cioè, l’adolescenza rimane pur sempre un’età critica, pesante e inquietante per chi non la vive direttamente ma la subisce indirettamente, a prescindere dall’epoca in cui si vive, rimane un’età in cui si ha voglia di crescere, di non pensare, di essere leggeri ma con dubbi pesanti per chi la vive direttamente, non cambiamo la parte emotiva di ciò che siamo; è un po’ come essere su una giostra che gira: a noi sembra di muoverci, ma in realtà siamo fermi, rimaniamo noi, è il mondo fuori che si muove, ma se lo fa troppo in fretta, però, rischiamo di cadere dalla vertigine che provoca il non riuscire a fermare ciò che ci appare davanti.
E’ tutto ok!
Pubblicato il 17 ottobre 2019 5 commenti

Ci siamo, mancano poche ore e il mio braccio sarà libero dal gesso! Mi sento come un bambino in attesa di Babbo Natale: eccitazione, ansia, speranze, domande e paura. Si, paura, quella che mi frega da qualche tempo, paura che non sia finita e che, come da troppo tempo ormai, devo continuare a rimandare la vita che vorrei a giorni migliori.
Proprio fra qualche giorno festeggio tre anni di vita dura, tutta in salita, senza una pausa di serenità per tirare il fiato, e di fiato proprio non ne ho più. La mia vita è cambiata in una tiepida sera di fine ottobre, quando mio marito, con estrema serenità, mi ha annunciato che, avendo una relazione con un’altra donna, sarebbe andato a vivere con lei entro un paio di giorni ( forse il tempo di lavare e asciugare tutta la sua roba?). Per me è stato un fulmine a ciel sereno, non mi ero accorta di niente, anzi, siamo sempre stati una coppia affiatata con, forse solo per me, un bel legame solido. Mi è mancato il respiro, mi mancata la terra sotto i piedi, non riuscivo a capire se fosse un brutto incubo dal quale mi sarei svegliata al più presto. Invece l’incubo era realtà e la realtà, nei giorni successivi, sembrava peggiore di qualsiasi incubo: ho passato mesi senza mangiare né dormire, ho sopportato e gestito le telefonate e i messaggi minacciosi dell’amante ( una vera signora!), ho cercato di far vivere alle mie figlie una vita normale, non ho minacciato, non ho urlato, non ho fatto nessun genere di guerra, ma è stata dura. Mi odiavo, mi sentivo un essere indegno di affetto perché non avevo niente che andava in me, mi reputavo un errore umano.
Mi sono ritrovata completamente sola, da quando erano morti i miei genitori, mio marito era diventato tutta la mia famiglia e, senza di lui, mi sentivo per la prima volta orfana. Si, c’era mia sorella, ma il suo caratteraccio mi allontanava e nel momento del bisogno, bisogno di una spalla, di conforto, di qualcuno su cui contare, ha solo snocciolato richieste e chiestomi sacrifici per poter far fronte alle sue necessità ( il classico mors tua vita mea). Così, dopo mesi di terapia psicologica per non implodere e ritrovato amore per la vita, la mia nuova vita, ero pronta a lasciare il gelo di un inverno difficile per farmi baciare dal sole di una nuova estate.
Mi ricordo bene anche quella mattina di inizio giugno, ero serena, niente poteva più riaprire ferite che stavano rimarginandosi; avevo ricevuto una raccomandata scritta dall’avvocato di mia sorella che mi aveva solo fatto sorridere per il grado di meschinità celato da un linguaggio troppo giuridico, avevo anche ricevuto l’ennesimo messaggio di minaccia dalla solita signora, preoccupata che rivolessi indietro il suo “gioiello”, a cui non avevo risposto perché non volevo più saperne di loro, della loro vita, dei loro litigi e delle bugie che si dicevano reciprocamente, non era più affar mio, che si azzannassero fra di loro…insomma, era un momento zen, momento di ottimismo e serenità, ma pur sempre momento che, per sua definizione, dura poco o poco più. Sempre quella mattina, durante un’ecografia fatta per un problema a un braccio, l’ecografista scrupoloso decide di dare un’occhiata un po’ ovunque e, nel giro di un paio d’ore avevo già in mano l’appuntamento con il chirurgo per il giorno successivo e in testa caos e paura, anzi, terrore.
“Signora, è sola o è venuta accompagnata?” mi chiese il medico che una settimana prima mi aveva fatto una biopsia, ” Sono da sola, dica pure”, “Avrei piacere di parlarle in presenza di qualche parente, non ha nessuno disponibile?”, “No, ho solo due figlie non troppo grandi né troppo piccole e non credo che possano capire quello che deve dirmi più di me!”. “Signora, lei ha il cancro, anzi, ne ha due, ha due carcinomi molto aggressivi che vanno asportati al più presto”, ” Ok, lo avevo intuito, ho già appuntamento con il chirurgo, grazie.” Sinceramente quell’uomo mi aveva innervosita, non per la notizia, ma per il modo un po’ maschilista nel voler affrontare il discorso con qualche parente, come se io non fossi stata in grado di recepire le sue informazioni, così ringraziai e mi diressi verso la porta, “Signora, ma ha capito cosa le ho detto?”, “Certo!”, “Non mi sembra, si rende conto di cosa dovrà affrontare e che non è detto che riesca a farcela?”, cavolo che tatto! Certo che me ne rendevo conto, sono cresciuta con la parola “cancro” che aleggiava per casa, i miei genitori erano morti proprio per questa specie di mostro mangiavite, ma disperarmi, piangere, lasciarmi prendere dallo sconforto mi avrebbe guarita? ” Signora, torni indietro, lei non capisce che ha due cancri?”, Mi girai verso di lui proprio mentre varcavo la soglia e, tranquillamente gli risposi: “Due cancri, e allora? Ho due figlie, due cani, due gatti, due conigli e due cancri, c’è di peggio nella vita, pensi che dramma se avessi anche due mariti!”, mi girai e me ne andai lasciando il medico molto basito per la mia risposta.
Quando si affronta una separazione e una malattia contemporaneamente si è concentrati sul riuscire a limitare i danni, sull’organizzarsi per la gestione delle figlie e della casa, le amiche di sempre, quelle che da trenta e passa anni hanno condiviso con me un pezzo di vita mi supportavano, mi davano la certezza che sarebbe stato facile e che non sarei stata sola. Invece sola mi ci sono ritrovata, nel momento peggiore, quando, dopo qualche giorno da un intervento non affatto facile, le mie figlie sono partite per le vacanze col padre, le loro prime vacanze senza di me e la mia prima volta senza di loro. Giravo per casa bardata di borsetta in cui tenere il contenitore del drenaggio che era ancora attaccato al mio corpo tramite un tubo, con il braccio destro ko dallo svuotamento dei linfonodi già attaccati da metastasi, con la tetta operata più grossa di quella sana, infiammata, dolorante e martoriata da una lunga cicatrice che a me pareva come una trincea delimitante un campo di guerra; a giorni alterni mi recavo in ospedale per svuotare il bombolotto del drenaggio, per farmi siringare altro liquido dalla tetta che si formava incessantemente provocandomi dolore e febbre, da sola, guidando, anche se mi avevano proibito di farlo, ma non avevo alternative, le amiche che si erano messe a disposizione per aiutarmi, a parole, erano sparite, perché, a detta loro, dovevo starmene un po’ sola per stare meglio…Intanto ho trascorso settimane, poi mesi, imparando ad arrangiarmi, a gestire una febbre che non se ne andava mai, a farmi forza mentre mi rigiravano come un calzino in cerca del motivo, a sopportare i molteplici effetti indesiderati delle terapie, dei farmaci, del veleno che devi ingoiare per essere sicura che il mostro se ne sia andato definitivamente e che non rimanga nessuna traccia della sua permanenza dentro di me. Il mio ex marito mi ha aiutata, e io ho lasciato che lo facesse perché in certi casi la necessità supera l’orgoglio (e si abbandona il pregiudizio), mi accompagnava a fare le terapie e le visite, io non mi sono mai sentita così sfinita come in quei mesi: dormivo, come chi è dovuto stare sveglio per un giorno intero, prendevo antidolorifici per attutire il dolore acuto e costante alle ossa causato da tutte le cure, non riuscivo a occuparmi di problemi e incombenze della vita quotidiana, vivevo come se mi avessero chiusa in una bolla, tutto era fuori, tutto era attutito, ogni cosa rimbalzava all’indietro quando cercava di avvicinarsi. Così, vista la mia poca vitalità, le mie care amiche storiche un giorno hanno deciso di creare un gruppo whatsapp in cui ognuna mi dava il ben servito come amica essendo tutte d’accordo sul fatto che io non riuscivo più a essere d’aiuto nella gestione ed esternazione dei loro problemi perché ero troppo concentrata sui miei che, a detta loro, ritenevo più importanti. E’ stato lo stesso dolore e stupore provato quando il mio ex marito mi annunciò la sua uscita da casa…Ma, con la consapevolezza che nella vita c’è di peggio, non mi sono persa d’animo e ho consolidato amicizie nate da poco e ne ho fatte di nuove, trovando persone meravigliose che mi hanno fatto ( e tutt’ora lo fanno) sentire amata così come sono, per quella che sono…
La vita va vanti, nolente o volente, si sopravvive per vivere, si sopporta per assuefarsi, io mi sono abituata ai miei dolori, alla mia stanchezza, alle braccia molli, alla tetta dimezzata, bruciata e dolorante dalle radiazioni, alle polmoniti che si susseguivano e ancora lo fanno; ogni volta che penso di stare meglio e di poter cominciare finalmente quella nuova vita che ero pronta ad affrontare e che è stata messa in standby, arriva qualcosa che mi ferma e mi fa sperare in momenti migliori. A maggio, quando l’oncologa mi disse che tutto stava andando bene, avevo cominciato a tirar fuori i miei progetti di vita, avevo voglia di muovermi, di andare al mare, di scorrazzare in bicicletta, ma la solita polmonite mi ha fregata e fermata, vabbè, tanto poi passa e io ricomincio a sognare, ma un mese di antibiotici avevano causato dei danni e tac, il tendine del pollice si è rotto come un grissino che taglia il tonno, vabbè, che sarà mai, è un pollice…ma poi mi sono resa conto che la conquista del pollice opponibile, oltre che a distinguerci dalle scimmie, ha una sua funzione importante e via, unica soluzione un bel trapianto di tendine, ma si, che sarà mai…devo smetterla di dirlo…il giorno dell’intervento mi è esploso il fuoco di Sant’Antonio e tutto è stato rimandato, vabbè, meglio no? Come avrei sopportato un mese di gesso in piena estate? Ma si, godiamoci sto fuoco che c’è di peggio. Finalmente, dopo un mese e mezzo mi ritrovo in sala operatoria, pronta ad affrontare l’intervento ( era venerdì 13 settembre, non mi sono fatta prendere da dubbi scaramantici…)
Ecco perché sono emozionata ma ho paura, paura che la mia vita sia come la canzone di Branduardi ” Alla fiera dell’est”: un insieme di sfighe infinite incatenate fra loro, che la vita messa in standby sia invecchiata e diventata inutilizzabile. Senza il gesso è un bel passo avanti nella riconquista della piena autonomia ( voglio guidareeeee!!!), ma è anche la paura di dover affrontare qualcosa di nuovo, magari è un qualcosa di bello, ma se poi arriva il gatto che si mangia il topo e il cane che si mangia il gatto e il bastone che picchia il cane e il fuoco che brucia il bastone e l’acqua che spegne il fuoco e il bue che beve l’acqua e l’uomo che uccide il bue e….e che palle, io voglio crederci, anzi ne sono convinta: è tutto ok!!