NON E’ CAMBIATO NULLA

Un giorno come un altro, perché festeggiarlo? Cosa cambia in un millesimo di secondo: comincia un nuovo giorno, inizia un nuovo mese, un nuovo anno, e allora? Noi non cambiamo.

31 dicembre 2022

Apro gli occhi e l’orologio segna le cinque, ultimamente non riesco a dormire, troppi pensieri, troppa ansia che sale soprattutto di notte, troppo dolore al ginocchio ma che non supera la paura di ritornare in sala operatoria, insomma, sono troppo anche per me stessa. Mi alzo per lasciare i pensieri nel letto, facendo piano per non svegliarli, e scendo in cucina seguita dal mio corteo di cani e gatti. Solito rituale: faccio uscire gli animali, accendo la macchinetta del caffè, vado a far pipì, carico una lavatrice, faccio rientrare gli animali, li sfamo, mi faccio il caffè e lo bevo così, amaro senza appoggiare la tazza sul tavolo, in piedi come se avessi fretta, ingurgito la mia manciata di farmaci e mi fumo una sigaretta, sono un paradosso, prendo i farmaci per scongiurare recidive e tamponare i danni delle terapie, per allungare la mia aspettativa di vita dicono i medici, e poi fumo perché  in realtà non voglio una vita troppo lunga. Accendo la televisione per intontirmi di rassegne stampa, meteo e tg, il caffè mi ritorna su e lo stomaco brucia, ma lascio che accada, passerà. Uno dei miei difetti: sopporto tutto, riesco a tollerare e ad avere la pazienza dell’attesa che tutto passi, forse dovrei ribellarmi alla sopportazione e alla pazienza.

Comincio a rassettare i segni del rientro notturno della neo diciottenne: giacca mollata in cucina, pezzi di cibo sbocconcellati, bottiglie di acqua vuote, padella in cui è stato riscaldato qualcosa di unto, segnali che indicano che c’è. Ripulisco anche i disastri del cane che ha trovato il modo di svuotare il bidone dell’umido spargendolo equamente per tutta casa.Sono stanca di fare tutti i giorni le solite cose, ma le faccio. Stasera le figlie non ci sono, come è giusto che sia, e io che farò? Boh, ci penserò poi, ora ho bisogno di una doccia che mi svegli.

La doccia non mi ha svegliata un granchè, lo stomaco fa male e ora anche la pancia mi lancia segnali di dolore, ho bisogno di fermarmi sotto una coperta.

Intanto si sveglia la neo ventenne, altro giro di caffè con lei e lista delle commissioni che deve fare fuori per se e per me: da quando può guidare la mia auto per me è un sollievo e per lei è divertente sobbarcarsi di incarichi. Ma non sto bene, devo correre in bagno, forse qualcosa che mi ha fatto male, ma cosa? L’ansia?

Metto in mano alla neoventenne chiavi della macchina, lista e soldi, i miei ultimi soldi, 50 euro, dovevano bastarmi fino al 10 di gennaio, ma non bastano, non basteranno, nonostante abbia venduto le ultime cianfrusaglie d’oro che avevo, le spese questo mese sono state troppe e troppo costa vivere, ma non importa, qualcosa mi inventerò, e, visto che ho fatto salti mortali per risparmiare sulle troppe spese natalizie tanto da non essermi nemmeno concessa il lusso dell’acquisto di un panettone, le chiedo di comprarmi qualcosa di dolce, stasera non ho voglia di cucinare solo per ma ho voglia di sapori natalizi, che mi addolciscano e stemperino l’acidità che continua a invadere il mio stomaco.

La neodiciottenne si sveglia già nervosa: le fa male il collo, non riesce a muoverlo e si dispera, si dispera ma spera che le passi entro sera quindi, urlando, chiede l’intervento della madre che, mentre le prepara una borsa di acqua calda e un bicchiere di acqua e brufen, pensa che se ieri sera non fosse andata in discoteca vestita come Cat Woman forse sarebbe ancora a letto a godersi la pigrizia delle vacanze di Natale, ma i miei sono pensieri da madre quindi non vanno palesati per evitare discussioni che in questo momento sono inutili. Lei Brufen e io Imodium, ecco come ci trova la neoventenne tornata a casa con panettone, sacchetto della farmacia pieno e sigarette per me, cibo per il suo coniglio e pollo arrosto con crocchette per il pranzo.

Il pomeriggio lo passo a preparare cibo che la neodiciottenne mi ha ordinato come cena da condividere con le amiche stasera, a far la spola tra bagno e cucina, a imprecare per l’inefficacia dell’imodium e a urlare al cane che vorrebbe approfittare di una mia distrazione per far strage di cibo e spazzatura. Approfitto di un tempo medio di cottura per sdraiarmi sul divano con plaid, gatti ronfanti sulla pancia e tv ottenebrante, ma in tv parlano solo della morte del Papa Emerito (e nemmeno vale il detto “morto un Papa se ne fa un altro”) o passano film idioti sul Natale. Tra una fuga in bagno, una in cucina e una sul divano sento il suono dei messaggi di gruppo whattsapp, non mi precipito a guardare il telefono perché l’unico gruppo che ho è quello delle mamme della classe della neodiciottenne e non sono proprio in vena di contraccambiare auguri sul nuovo e migliore anno intervallati da problematiche sulla gita scolastica, ma chi, come me, è cresciuto nell’epoca in cui il telefono aveva solo tasti, cornetta e filo attaccato al muro che lo rendeva poco portatile come è sopravvissuto? I genitori non si conoscevano nemmeno, siamo sopravvissuti e, forse, pure cresciuti con maggior senso di responsabilità.

Poi prendo in mano il telefono e vedo che la notifica è di un gruppo in cui mi hanno appena messa. Ansia, tristezza, amarezza, delusione, sono stata travolta da mille emozioni negative, speravo di non avere più a che fare con alcune persone del passato e invece, senza rendersene conto  mi hanno messa tra persone che erano amiche, pure storiche, pure care, ma che quando mi sono arrivate mazzate di vita pesanti ( tradimento e sortita del marito, scoperta di due carcinomi e decisione di mia sorella di non parlarmi più), tutte insieme, come se la merda fosse infinita e senza possibilità di una piccola pausa da imodium, quando mi sentivo persa, abbandonata, fragile, confusa, disperata e sola nell’affrontare i problemi, quelli seri, quelli veri, quelli che spesso non trovano soluzione, mi hanno voltato le spalle usando un gruppo whattsapp ad hoc in cui ognuna di loro esprimeva il proprio disappunto sul mio comportamento pessimista, non mi occupavo più dei loro problemi e questo non andava bene, non servivo più come confort friend, anche loro avevano vite complicate, felici ma complicate, quindi mi è stato dato il benservito e ciaone…per me è stato più doloroso del tradimento coniugale e ora mi ritrovo in un cavolo di gruppo whattsapp con loro, e non ho voglia di augurare buon anno, non ho voglia di chiedere come va, non ho voglia di sentirmi ancora l’amica che deve solo sorridere sempre e comunque, che deve tenersi tutto dentro per non ledere la serenità altrui, che non può esprimere sentimenti negativi perché sono fissazioni di cui posso fare a meno.

Rimpiango il gruppo mamme di scuola.

Intanto la neoventenne è pronta per andare, passerà la serata a casa di amici e vogliono cominciare presto perché c’è anche da cucinare, io un po’ meno pronta per accompagnarla ( non vuole prendere la mia auto perché ha paura che al rientro la fermino per alcool test…), ho voglia di vomitare, di liberare la mia vita dai ricordi più brutti, ma, come sempre, mi faccio coraggio, affido il cane vecchio e terrorizzato dai botti alla neodiciottenne in modo che non scappi dalla paura, lasco fuori il canespazzaturadipendente in modo che non faccia disastri e vado.

Fuori brilla tutto, case, strade, cielo e negozi già chiusi, tutto grida sfacciatamente che è capodanno, e allora, continuo a chiedermi, cosa vi cambia? Non si cambia cambiando data.

Lascio la neoventenne al suo destino, mi promette che mi farà saper l’ora per riprenderla e che non sarà l’alba, e mi dirigo verso casa, verso la luce di viali alberati e addobbati, apro i finestrini perché ho bisogno di aria e di vento che spazzi via i pensieri, ma la musica che ascolto mi prende a schiaffi  ( https://youtu.be/Hhc2VJHX-xM ) e mi ricorda che la fine di questo anno coincide con la fine legalmente riconosciuta del mio matrimonio; quest’anno niente più ex marito che passa il capodanno con me per pietà nel sapermi sola, che poi sola lo ero di più visto che l’aria formale mi andava di traverso, i dialoghi, limitati al tempo, alle figlie al nulla, venivano intervallati da lunghi silenzi in cui io non guardavo la tv, lui chattava con l’amica di turno, apertura spumante a mezzanotte, auguri carissimi poi ognuno ritornava con la mente altrove e faticavo pure a svegliarlo dal sonno di chi è satollo di cibo, spumante e inciuci segreti in cui cadeva, tristezza tanta, ma quest’anno che sono davvero sola non sono triste, anzi, mi sento serena nell’esserlo, come un “finalmente faccio quello che voglio, anche niente”, ho solo quella parte di tristezza che rimarrà per sempre nel mio cuore per come è finito il nostro matrimonio, per i trent’anni di bugie a cui ho sempre ciecamente creduto, per l’accorgermi solo ora che non era quella la normalità, per, soprattutto, la mancanza di un “mi dispiace”, sincero e non formale, al momento della separazione, perché quel giorno per me è stato triste, come il funerale di una persona cara, triste per l’asetticità e la velocità con cui le promesse “per sempre” vengono annullate e via, liberi tutti, nel bene e nel male, in salute e in malattia.

Rientro a casa per buttar fuori tutto l’amaro che avevo dentro, la neodiciottenne è quasi pronta, insieme a lei c’è la sua amica, incarto le teglie di pasta al forno, aggiungo bustine di brufen per il suo collo e comincio con le raccomandazioni che una madre deve fare fare pur sapendo che sono inutili. Già che ci sono le chiedo consiglio su come comportarmi su questo gruppo whattsapp in cui mi hanno messa ( essendo lei estremamente razionale spesso ho bisogno di un suo giudizio per scendere dalle nuvole), si ricorda di quelle mie amiche, si ricorda bene di quel periodo, mi consiglia di non scrivere niente, nemmeno di contraccambiare gli auguri fatti dall’ideatore del gruppo, inconsapevole dell’ansia provocatami, ok, accetto il consiglio, lei mi guarda e mi dice “Mi raccomando mamma, non fare come tuo solito che poi scrivi messaggi lunghi, non fare la sottona, non rispondere!”

Baci, raccomandazioni e baci, promesse di farmi avere notizie per il rientro a casa il giorno dopo, non chiedo auguri o telefonate di mezzanotte, a quell’età non si deve pensare alla mamma in quella frazione di secondo in cui tutti credono che cambierà qualcosa, non cambia niente se cambia l’anno, non cambiamo di una virgola solo perché abbiamo aperto lo spumante e brindato.

Mi accoccolo sul divano, finalmente non ho impegni imminenti, rispondo ad alcuni messaggi e, si, sono masochista, invio il messaggio di risposta agli auguri sul gruppo da cui era stato inviato, le altre avevano già risposto e mancavo solo io quindi tacere sarebbe stato irrispettoso nei confronti di chi ci aveva riunite per augurarci buon anno e tanta felicità. Ascolto il messaggio del nostro Presidente della Repubblica alla nazione, il mio stomaco tace, forse tutto è sparito, ma stasera non credo ai cambiamenti repentini anche se Mattarella ci esorta ad andare avanti, ad accogliere il progresso, a non ripetere o esaltare un passato che non ci appartiene più e a me sembra che parli alla mia ansia, al mio problema col chiudere con ciò che era e non è più, caro Sergio in questo momento avrei bisogno di un padre come te, saggio , comprensivo ma esortativo. La mia serenità vacilla un pochino perché mi rendo conto che sono senza famiglia, che la mia famiglia sono le mie figlie e i miei animali, da troppi anni sono orfana e mi pesa perché ogni tanto vorrei rivestire i panni di figlia, vorrei sentirmi dire “non ti preoccupare, ci penso io a te”…

Cerco qualcosa da guardare in tv che non sia il solito show di capodanno ma nemmeno un film visto migliaia di volte, ma la ricerca è ardua quindi opto per lo streaming, un po’ sonnecchio, un po’ ascolto, mi arrivano gli auguri del mio padrone di casa che mi fanno ridere e che userò come immagine per questo post, intanto nel quartiere hanno deciso di anticipare i botti e il cane, quello anziano,  cerca la fuga, ha l’ansia e mi sbava addosso, alzo il volume della tv per attutire il volume dei botti ma aumento solo la confusione sonora, che palle ‘sti botti! Arriva mezzanotte e me ne accorgo dall’intensificarsi dei suoni, dei fischi, dei boati, è andata, penso, e non è cambiato nulla, ma arriva subito, alle 00,02 il messaggio della neodiciottenne  comprensivo di foto sua con amica e di cuoricini rossi, allora qualcosa è cambiato?

Mi faccio un caffè per arrivare sveglia all’ora in cui devo riprendere la neoventenne, mando gli auguri a mio fratello che mi risponde subito e mi strappa un sorriso, e poi a chi li mando? All’ex marito che sta festeggiando con compagna e famiglia? Non sarebbe presa bene, sarei travisata come sempre. Fino alle due sono stata a ripulire i disastri del cane vecchio che se la faceva addosso a ogni botto, a sistemare i disastri del cane spazzaturadipendente che si era dato alla masticazione della carta, brontolando ma sapendo che ciò mi distoglieva dai pensieri.

Poi un messaggio: “Vieni alle due”. La neoventenne ha mantenuto la promessa di non farmi uscire all’alba. Infilo i cani in macchina e parto. Li porto con me perché se li lascio in casa mi ritrovo altra roba da pulire, se li lascio in giardino e parte un botto, anche lontano, scappano anche ci fosse il filo spinato. Mi metto la musica, la strada non è deserta, c’è un via vai di auto ordinato che mi piace perché non mi fa sentire sola, intanto il canespazzaturadipendente comincia ad avere reazioni meteoritiche pesanti, quindi guido con entrambi i finestrini aperti, la musica a tutto volume e il mio canto stonato che si disperde nell’aria della notte con l’aria del cane.

Ho ripreso la neoventenne, insieme abbiamo chiamato la neodiciottenne che si, aveva ancora male al collo, ma in discoteca passa tutto. Io ho loro, e non vorrei che fossero diverse, penso di essere fortunata, loro mi amano così come sono, non devo stare a spiegare o a dargli il libretto di istruzioni per capire come sono fatta, sanno che sono affidabile, sincera, fedele e priva di invidia e odio, si, ogni tanto mi dicono che sono un po’ cogliona perché mi fido troppo e casco nelle balle altrui, ma se fossi diversa non sarei io.

Il messaggio che, nonostante il consiglio di non mandare della neodiciottenne, avevo mandato non ha suscitato nessuna reazione, nemmeno un come stai, o un ma allora sei sopravvissuta allo tzunami della tua vita, niente, come avrei voluto un “mi dispiace” dall’ex marito lo avrei voluto anche da loro, giusto per finire l’anno chiudendo il passato nella scatola dei casi risolti, invece è ancora un cold case produttore di ansia e di autolesionismo nel pensarlo ancora. Non è cambiato nulla, il tempo cambia solo le date non le persone.

NUOVI SEGNALI E VECCHI RICORDI

E’ cominciata la scuola, me ne sono accorta, era nell’aria, i segnali erano chiari ma diversi dai soliti, questo è l’ultimo anno di liceo per la quasi diciottenne e a me è presa un po’ di nostalgia dei vecchi rituali pre-scuola: niente lotta ad armi impari tra me e i rotoli di plastica per rilegare i libri, nessun accenno di odore legnoso da appuntatura matite, ho chiuso con i crampi alle dita dallo scrivere ripetutamente nome, cognome e classe, su centinaia di etichette, i ricordi delle giornate dedicate all’acquisto di quaderni, cartelle, astucci stratificati e già ripieni, gomme e penne cancelline di ordinanza stanno sbiadendosi, il tempo è passato così velocemente che dal “Mamma mi compri i pennarelli nuovi” al “Mamma fatti gli affari tuoi, non ti azzardare a comprare niente senza la mia approvazione, anzi, dammi i soldi che mi arrangio io” è stato un attimo. Così, anche per questo ultimo anno, non mi sono impicciata e ho lasciato che fossero altri segnali a ricordarmi che un nuovo anno scolastico stava ricominciando. Per esempio il chiedere della quasi diciottenne alle amiche quali compiti per le vacanze dovessero fare, il suo stare a casa, e senza dormire, per almeno un paio d’ore e seduta alla sua scrivania, il cercare i libri che erano della sorella e non accorgersi che questa glieli aveva già lasciati fuori da camera sua da almeno una settimana, il vederla concentrata davanti al telefono in cerca di riassunti dei libri che doveva leggere, il farmi lavare tutti i pantaloni lunghi abbandonati da giugno in fondo al suo armadio…Lei, il ciclone biondo piastrato quasi diciottenne, il giorno prima dell’inizio della scuola, poco prima di uscire per fare l’ultima cena con le amiche, mi aveva dato istruzioni precise:

“Allora mamma, l’organizzazione per domattina è questa: devo essere davanti al cancello della scuola almeno un quarto d’ora prima, ho appuntamento con le altre e siamo tutte d’accordo, visto che ci sono due ragazze nuove che vogliono subito appropriarsi dei posti in fondo, dobbiamo essere sicure di entrare per prima, ma ti rendi conto? Arrivano quest’anno e vogliono pure il diritto di scelta del posto, ma non potevano venire due maschi invece che due femmine? Spero che almeno siano brutte! Poi ora con loro siamo in 16, o 18? Sai che non mi ricordo in quanti siamo in classe? Secondo te potrebbero metterci in una classe più grande? Comunque, tu mi porti a scuola, non vado con lo scooter, pronte a uscire alle 7,30, mi raccomando! Dove hai messo la mia roba lavata? Dove sono le mie magliette? Dove sono i libri nuovi? In questa casa non si trova mai niente!” Non ho avuto il tempo di rispondere che il ciclone biondo piastrato era già fuori dal cancello, in sella allo scooter che non avrebbe utilizzato l’indomani.

La quasi diciottenne ( e anche la ormai universitaria diciannovenne) frequenta lo stesso liceo in cui mi sono diplomata, però sembra tutta un’altra scuola. Ai miei tempi si andava a scuola in autobus, motorino o bicicletta, mai visto genitori accompagnare i propri figli, ora gli autobus non passano più dappertutto ed è più complicato accompagnare i figli alla prima fermata utile che portarli direttamente, nel parcheggio della scuola non si vede nemmeno una bici: o scooter, o moto o macchinine. Ai mie tempi il liceo era a pochi metri dal mare, in un palazzo grande, austeramente maestoso, dalle finestre delle classi potevamo vedere quelli che, invece di venire a scuola, se ne andavano a cavalcare le onde con la tavola da surf sotto il braccio; non avendo la palestra andavamo a piedi fino alle scuole elementari o alle scuole medie che, alternandosi, ci concedevano l’uso della loro, oppure, nelle giornate di sole, andavamo a far ginnastica in spiaggia, a noi ragazze piaceva di più perché il tragitto era più breve ( bastava attraversare la strada), potevamo prendere un po’ di sole e, soprattutto, la prof non ci massacrava con esercizi effettuabili solo in palestra, erano i tempi in cui i maschi avevano un prof uomo e le femmine una prof donna, per fare numero univano due classi, ma niente mescolio di sessi durante le ore di educazione fisica! Ora quel palazzo è diventato la sede del comune e il liceo è stato trasferito nell’edificio che, ai miei tempi, ospitava la scuola media, niente più vista sul mare e frescura da pineta. ma ingresso principale ( da cui è vietato entrare e uscire) su una strada stretta e trafficata, ingresso sul retro caldo, polveroso e assolato o melmoso e allagato, dipende dalla stagione. Ai miei tempi non c’erano svariati indirizzi, il liceo scientifico era solo liceo scientifico, stop, nessuna variazione sul tema, c’erano due sezioni per ogni anno, solo nell’anno in cui mi sono iscritta arrivarono a tre, ma fu un caso straordinario, ogni anno si perdevano compagni e si acquisivano compagni a causa delle bocciature, più o meno il numero rimaneva quello, in classe mia questo via vai non ha mai intaccato la differenza numerica tra maschi e femmine lasciando il concetto di “quota rosa” alle generazioni future e noi con un 7/27 di femminilità. Oggi ci sono più classi, più indirizzi, più scelta sicuramente, meno differenze numeriche tra maschi e femmine, anzi, in alcuni casi più femmine che maschi, ci sono più aule dedicate a laboratori, c’è la palestra, l’aula magna, la biblioteca, la segreteria, i distributori automatici in ogni corridoio, ma niente preside, ormai i presidi devono gestire più scuole, non più una ma molte che nel loro accorparsi gestionale si chiamano istituti, anche se sorgono in comuni diversi e/o distanti, sono un diversamente tutt’uno, oggi il preside sta solitamente nella sede più grande, ogni tanto fa capolino nelle altre sedi, ma niente che possa essere messo a confronto con la figura del preside di una volta. Ai miei tempi il nostro preside era l’incubo per studenti e insegnanti, arrivava prima dei bidelli, si metteva in cima alle scale, davanti al portone, braccia incrociate, a far la conta di quelli che entravano mentre riusciva a minacciare con lo sguardo quelli che, da lontano, tentennavano, le lezioni cominciavano alle 8 ma lui faceva suonare una campanella alle 7,55 e con la quale dichiarava la chiusura definitiva del portone, chi voleva entrare tra le 7,55 e le 8 si prendeva una sorta di penalità, arrivati a tre penalità dovevamo presentarci accompagnati da genitore, stessa penalità valeva per il corpo docente ma non ho mai saputo se anche loro, raggiunta la soglia 3, dovessero presentarsi con un genitore, un familiare o un avvocato. Il nostro preside, uomo magro, quasi appuntito,  che a me sembrava anziano  per la pelle rugosa del volto e le mani chiazzate dalla psoriasi, ma poteva anche non esserlo, indossava ( sempre, da settembre a giugno) un cappotto/impermeabile scuro, di pelle, che noi ragazzi definivamo pelle di studente, allo scoccare delle 8, usciva dall’edificio, saliva sulla sua Fiat 127 bianca e faceva il giro del paese, stradina per stradina, in cerca di ragazzi che avevano “salato” ( ogni regione ha il suo modo di indicare il non andare a scuola all’insaputa dei genitori), missione non impossibile visto che il paese si svuotava da settembre a giugno, quindi facile individuare ragazzi in fuga. Finita la missione tornava a scuola e prendeva possesso del suo ufficio, ordinatissimo, asettico, semibuio, pronto a ricevere gli alunni che dovevano giustificare eventuali assenze, tremanti al pensiero delle sue domande, del suo guardare con attenzione da esperto grafologo la firma del genitore; alcuni studenti sfidavano la sua severità appoggiando le proprie mani sulla scrivania in vetro, lasciando impronte unte da merende succulente che vendeva la bidella all’ingresso, sapendo perfettamente quanto il preside tenesse ad avere la sua scrivania immacolata, splendente e riflettente come uno specchio. Ogni tanto, durante le ore di lezione, faceva il giro delle classi, irrompendo improvvisamente e, dopo aver preso possesso della cattedra, interrogava a caso, ma chiedendo quasi sempre le stesse cose di letteratura italiana, una delle sue domande preferite era: “Di cosa era goloso Leopardi?”. Aveva uno spiccato senso della giustizia, forse più che giustizia aveva assunto perfettamente il ruolo di giustiziere, così che, quando qualcuno osò scrivere una frase offensiva sulla porta di uno dei bagni, lui la fece smontare e la portò in tour in ogni classe per verificare la calligrafia di ogni alunno, o quando una mattina, aprendo il portone si trovò un fiume in piena ad accoglierlo e lui passò mesi a indagare sulla vita extrascolastica di chi, secondo lui, avrebbe avuto il coraggio e gli strumenti per sfidarlo, e sfidarlo era davvero diventato il divertimento massimo, aveva dato modo di far sviluppare una notevole fantasia: sigillare con chiodi e attack la serratura del portone, versare acqua sui gradini esterni, in mattinate ancora non albeggianti ma fredde, in modo da creare uno strato invisibile di ghiaccio, scrivere a caratteri cubitali insulti sul muro laterale esterno, in alto, talmente in alto da fare venire il dubbio che lo scribacchino anonimo fosse munito di jet pack, intasare gli scarichi dei gabinetti con rotoli interi di carta igienica, ma lui non si disperava, né si abbatteva, anzi, trovava un modo per evitare una ripetizione del danno, come quando tolse la carta igienica dai bagni di tutta la scuola, compresi quelli degli insegnanti, e chi avesse avuto bisogno di espellere qualche funzione corporale doveva passare dalla presidenza, richiedere la carta igienica, rispondere alla sua domanda sull’entità del bisogno perché con bisogno piccolo elargiva pochi strappi, con bisogno consistente poteva dare qualche strappo in più. Se all’epoca la dittatura presidenziale mi dava ansia, oggi si è tramutata in un bel ricordo, ancora mi provoca ilarità e anche un po’ di nostalgia della mia gioventù.

Sembro uno di quei vecchietti da cantiere che osservano scuotendo la testa e dicendo “Ai miei tempi le cose si facevano meglio.”, lo so, e non voglio esserlo, dopotutto io ho una percezione della scuola basata su esperienze e ricordi lontani e soggettivi,  stessi ricordi li avranno, tra parecchi anni, anche le mie figlie, così i cambiamenti rimangono uguali nel tempo.

Tornando al presente,  il ciclone biondo piastrato quasi diciottenne non era ancora tornato dalla sua cena di addio all’estate quando ho deciso che era l’ora di andarmene a letto visto che mi sarebbe toccata una levataccia la mattina seguente. Cioè, io, l’adulta,  madre, con alle spalle tutti i gradi di scuola possibili fatti, mi stavo preoccupando di alzarmi presto per portare la figlia a scuola mentre la figlia se ne stava a festeggiare fregandosene della possibile stanchezza che avrebbe avuto la mattina successiva. Vabbè. Verso mezzanotte e mezza vengo svegliata dalle urla della quasi diciottenne che non trovava il suo zaino. “Mammaaaaaaaa, dove hai messo il mio zaino, come faccio domani?” Io il suo zaino non l’avevo toccato, ovvero, dopo un mese dalla fine della scuola gli avevo cambiato di posto: da terra davanti alle scale che portano alle camere a terra davanti alla porta di camera sua. “Mammaaaaaa ma sei sorda??? Mi vuoi aiutare???? Stai sempre a dormire!!!”, oddio, sempre sempre no, solitamente soffro di insonnia, ma stavolta ero crollata in un sonno beato. “Guarda bene in camera tua, magari l’hai usato per andare al mare qualche volta”,  “No mamma, figurati se mi porto lo zaino al mare, in camera mia non c’è, ho cercato dappertutto, qualcuno me l’ha fregato!!!”,  “Guarda se è stato appeso sotto la marea di giacche e giacchini giù nell’ingresso”. Due minuti di silenzio, il tempo per riposizionarmi tra i cuscini e di nuovo mi sento chiamare “Mammaaaaaaa l’ho trovato!!! Era in camera mia, ma  dentro è tutto sporco di sabbia e fuori appiccicoso di salmastro, io così non lo posso usare!” E io che mi ero fatta prendere dalla nostalgia dei tempi in cui erano piccole e dovevo pensare a che  tutto fosse pronto…La sveglia ha suonato nell’istante esatto in cui fuori è iniziato un bel temporale e il ciclone biondo piastrato quasi diciottenne non sopporta bagnarsi i capelli né usare un ombrello per ripararsi, l’avevano annunciato da giorni che il 15 settembre, finalmente, sarebbe piovuto, avevano pure diramato un allerta codice giallo, che per me non si è riferita al meteo ma al ciclone biondo piastrato…

L’ETERNITA’

Arrivati alla mia età ( non più tenera, ma nemmeno troppo matura) la vita ci ha già insegnato che niente è eterno, che tutto ha una durata, una data di scadenza, una fine, solo ciò che costruiamo, pezzo per pezzo, con perizia e intento di durata può sopravvivere a noi stessi, tramutandosi solo nell’utilizzo, rimanendo uguali nella forma ma etichettati “reperti storici”. Che cos’è l’eternità? Si misura? Beh, se tutto ha una fine anche l’eternità, prima o poi, arriverà al punto finale, solo che il suo percorso non è lineare, gira lungamente intorno a se stessa così da trovarsi sempre a finire la sua corsa nel punto di partenza, come diceva Nietzsche, è un’eterna ripetizione dello stesso attimo. Metafisicamente il concetto funziona, peccato che, nella realtà, si frantumi scontrandosi con la morte, questa non la possiamo evitare e nemmeno far coincidere con il giorno di nascita, a meno che non si creda alla reincarnazione, ma anche in questo caso, si rinasce ma diversi da ciò che si era.

Oggi, 31 agosto, per me è la giornata dell’eternità. Oggi, 31 agosto, mio padre avrebbe compiuto 91 anni. Mio padre era una persona libera e folle, non conosceva la paura, la vergogna, la responsabilità, la fedeltà, ha sempre voluto vivere sfidando la vita, ci riusciva anche bene, tanto da avermi convinta fin da piccola che lui sarebbe sopravvissuto a un’eventuale fine del mondo.

Non ho mai visto mio padre arrabbiato, serio o preoccupato, si svegliava sempre di buon umore, cantava mentre si faceva la barba e io lo guardavo tutte le volte, incantata dalla velocità dei gesti, inebriata dal profumo che si gettava in faccia alla fine del tutto. Era un uomo piccolo, ma muscoloso, con gambe storte dal troppo calcio, sempre elegante, impeccabile, si vestiva guardandosi allo specchio per esclamare, alla fine, “ma che bell’uomo!”. Usciva di casa sempre canticchiando, ogni tanto spariva ma nessuno se ne preoccupava, lui tornava sempre, canticchiando come quando era uscito, come se il tempo non fosse passato nel frattempo…eternità? Da piccola, quando sentivo che apriva la porta di ingresso, mi precipitavo sul pianerottolo della seconda rampa di scale, lui si fermava sul primo, con le spalle davanti a una lunga vetrata, e, tenendo le braccia aperte verso di me mi chiedeva: “Oggi quante ne hai combinate?” Io facevo un breve riassunto delle mie malefatte e delle relative punizioni per poi gettarmi tra le sue braccia, tuffandomi dal primo gradino, come una sorta di trampolino, lui riusciva sempre a prendermi al volo, non sono mai caduta, non ha mai sbagliato la presa nè io la mira, adoravo quel momento e, quando lui faceva tardi, o non tornava, io passavo ore ad aspettarlo sul pianerottolo. Ero la figlia coraggiosa, quella che si buttava nei pericoli come lui e lui si divertiva a vedere fino a che punto arrivasse il mio coraggio, che fosse il buttarmi in un mare talmente mosso da divieto di balneazione, di portarmi a sciare cominciando dalla pista nera, mettendomi sulle sue spalle per tuffarci insieme dal trampolino più alto, io reggevo, amavo la sensazione di pizzicore adrenalinico nel mio corpo. A mio padre piaceva circondarsi di bellezza, amava godere dei piaceri della vita, non si è mai fatto mancare niente, non aspettava un evento particolare per aprire una bottiglia di vino pregiato da collezione, ne aveva voglia in quel momento? Allora si apre, cosa c’è da aspettare? Spesso l’attesa diventa infinita, eterna anch’essa, bloccando il fare si rischia di rimanere vuoti.

Si cresce, sono cresciuta, cambiata, diventata meno coraggiosa o più assennata, lui no, continuava a sfidare la vita tanto che, ogni anno, festeggiava il suo compleanno in maniera “grandiosa”, organizzando concerti, feste, cene, il tutto contornato da una folla di invitati, lui era il “one man show” della serata, della sua vita, della mia vita. Ogni anno il 31 agosto era il giorno della sua autocelebrazione, ogni anno doveva superare lo stupore dell’anno precedente, sempre oltrepassare un limite per dimostrare che, lui, non aveva limiti, era infinito, la sua energia era infinita, la sua voglia di fare qualcosa di nuovo era infinita…

Poi un giorno la vita l’ha fermato, paralizzandolo in un letto e lui l’ha sfidata andandosene via prima che diventasse una vita inutile, ha avuto fretta di andare, come quando spariva, forse per sbugiardare le previsioni mediche perchè il medico era lui. Mi ricordo quel giorno, il primo giorno di estate, la sua mano nella mia, i suoi occhi nei miei, perchè sono i suoi, i suoi occhi sono la sua eredità, e, con voce affaticata da un respiro corto mi ha chiesto scusa, solo io posso capire il significato di quelle scuse, mi hanno fatto bene, hanno aiutato il distacco che è stato più che doloroso.

Mio padre non è riuscito a invecchiare, l’eternità non invecchia, lui non poteva invecchiare e io non riesco a immaginarmelo vecchio, come sarebbe stato ora? Quando lo cerco nella mia mente appare sempre davanti allo specchio, appena sbarbato, che si cosparge di profumo, canticchiando, felice, con in mente mille cose da provare, noncurante di me che lo osservo, che mi ubriaco del suo profumo, che ne seguo la scia, e ancora lo sento quel profumo, il suo preferito negli ultimi anni: Eternity.

ASPETTANDO ASPETTATIVE INATTESE

Oggi è ferragosto e sto aspettando che piova. L’avevano annunciato ieri: codice giallo, allerta temporali, ma per ora niente, c’è il sole e le nuvole lo sfiorano come fasci di rette tangenti una circonferenza, nessuna che si azzardi a oscurarlo, come se fosse l’attore protagonista di questa lunga estate. Però aspetto, non sia mai che qualcosa cambi, e mentre aspetto mi accorgo che passiamo un’intera vita nelle attese, nelle aspettative, nell’aspettare qualcuno o qualcosa. Io aspetto, ho sempre avuto la pazienza nell’aspettare ma anche di avere troppe aspettative, ci provo a non farmene, provo a non fare dell’attesa una dipendenza, ma ne sono incollata.

Ho aspettato treni mai arrivati, ho atteso momenti giusti e sbagliati,

mi aspettavo amicizie sincere,

ho atteso scuse e notti meno nere,

ho aspettato che il buio finisse ma che il giorno non mi svegliasse,

ho atteso ogni anno la primavera come un bambino

che aspetta la favola della sera.

Ho atteso di riempire vuoti aspettandomi pesi più leggeri e,

mentre aspettavo giorni migliori,

attendevo lo sbocciare dei fiori,

ho aspettato un inizio e atteso con ansia la fine di uno strazio,

ho aspettato una spalla su cui poggiare la mia testa,

mi aspettavo che fosse quella giusta.

Mi aspettavo che gli affetti non tradissero

invece ho atteso che le loro lame mi pugnalassero,

continuo ad aspettare che quei segni svaniscano sulla mia pelle

ma son li per ricordarmi di non aspettarmi niente, nemmeno cose belle.

Ho atteso la pioggia dietro a un vetro aspettandomi che ogni mia lacrime ci si confondesse, aspettavo lo facesse ma non le ha mai portate via,

mi aspettavo verità, ho atteso l’ennesima bugia.

Sto aspettando nel silenzio il rumore della felicità,

ho sempre atteso per ore qualcosa che mi placasse il cuore,

mi aspettavo finalmente di non sentirlo più,

e mentre io mi aspetto qualcosa continuo l’attesa,

mentre lui non attende ma spera,

spera di battere ancor di più.

Meglio non aspettarsi mai niente in modo che ciò che arriva inaspettato sia meno doloroso o ne intensifichi la gioia a seconda di ciò che ci capita?Ogni attesa e aspettativa suscita delle emozioni, che siano di ansia, tristezza, serenità o gioia, sono emozioni e io non sono mai stata capace di frenare, nasconderle e reprimerle, cosi continuo ad aspettare, oggi che piova, domani chissà.

NOTTE ALTA…E SONO SVEGLIA

E’ ricominciata l’insonnia, quella brutta che ti tiene sveglia di notte e rintronata di giorno. Il caldo afoso di questa infinita estate modifica i ritmi quotidiani, modifica l’umore, i pensieri, le abitudini. Vado a letto tardi, già senza sonno, la stanza, nonostante ventilatore su comodino, porta del terrazzo spalancata e serranda alzata, sembra un forno statico, così mi piazzo accanto al ventilatore sperando che mi illuda, accendo la televisione, cerco programmi in cui parlino molto, di cose noiose, di notizie già sentite, le rassegne stampa alternate dai tg sono il meglio che si possa desiderare per addormentarsi, imposto un timer di spengimento di un paio di ore e, voltando le spalle al televisore, chiudo gli occhi, cercando di trasformare il suono delle parole in ninnananna. Solitamente è una strategia efficace, riesco ad addormentarmi, ma ultimamente non funziona, mi appisolo, mi risveglio dopo cinque minuti, cambio lato al cuscino, piazzo un altro cuscino sotto il mio perenne braccio dolorante, richiudo gli occhi, cerco di svuotare la mente concentrandomi sulle notizie di fantapolitica, ma poi passa uno scooter scoppiettante, il cane non più cucciolo abbaia dal terrazzo, la vecchietta (l’altro cane) si fa prendere dall’ansia per il rumore improvviso e comincia ad ansimare proprio davanti alla mia faccia, riapro gli occhi, tranquillizzo la vecchietta, redarguisco il non più cucciolo, spiumaccio un altro cuscino, allontano quello in uso perchè più accaldato di me, cerco rassicurazione nell’aria del ventilatore sperando che i pensieri si confondano in un vortice di aria tiepida che si perde nella stanza. Ultimamente i miei non sono pensieri, ma dubbi che dubitano di se stessi. Cerco di concentrarmi sull’aria del ventilatore che mi accarezza la pelle, ma anche questo mi fa pensare: ho sempre amato il vento, anche quello che solitamente l’istinto teme, amo l’aria in faccia, nei capelli, sulle braccia, mi accorgo che lo percepisco come una carezza, quindi vuol dire che ho carenza di carezze rassicuranti, quelle che ti fanno sentire al sicuro e si può abbassare la guardia per un pò perché qualcuno ti sta proteggendo dal mondo, dai brutti pensieri, dai dubbi di te stessa? Una porta sbatte dal piano terra, sicuramente è la diciassettenne che va a far scorta di acqua dal frigo ( e non ne rimette mai una bottiglia nuova), anche lei dorme poco di notte, ma non per insonnia, lei di notte sta al telefono con il suo ragazzo ( e se lo chiamo così dice che sono antica, non si dice più “avere il ragazzo”, lei “ha il tipo”, quindi, per prenderla in giro lo chiamo tipello), chiacchiera, ride, discute, si fa un panino e, sempre al telefono, ritorna in camera sua, sbattendo la porta e lasciando le luci delle scale accese. Beta gioventù, tra poco si addormenterà di botto, satolla di cibo, chiacchiere e cuoricini. All’improvviso sento delle calde vibrazioni sulla mia schiena, so che è il gatto, ma quale dei sei che ho? Mi giro e mi ritrovo un musetto grigio che si struscia sulla mia guancia, è Osvà, lui sente quando sono in modalità ansia, arriva come se avesse un radar e tra fusa e strusciamenti mi crea un effetto benessere immediato, anche se ultimamente ho il dubbio che arrivi perché attratto dal ventilatore, ma vabbè.

Guardo l’ora, sono già passate le due, reimposto il timer della tv, accendo la luce, i cani mi guardano come se si aspettassero di uscire, ma non ho intenzione di alzarmi, ho solo bisogno di cospargermi di crema per alleviare quel senso di bruciore che mi ha lasciato il fuoco di S.Antonio, so che è un breve sollievo, ma meglio di niente. In due anni due fuochi di S. Antonio, mi hanno detto che è stress, difese immunitarie bruciate con la terapia o sfiga, non si sa, però è bastardo e questo lo so. Faccio zapping, mi ci vorrebbe qualcosa di più soporifero di un tg, mi ci vorrebbe Marzullo, l’estremo rimedio di ogni insonnia, così premo il tasto 1 sperando di sentire, prima o poi, la sigla del programma. E’ notte alta e sono sveglio…ancora, ancora, ancora…

Ogni volta che sento quella canzone vengo catapultata nel 1981: avevo 11 anni quando a mia madre venne diagnosticato un cancro al seno, all’epoca la guarigione non aveva una percentuale statisticamente maggiore rispetto a quella della morte, così lei decise di andare là dove cominciavano a fare interventi e terapie più moderne, lontano da casa ma vicina alla sopravvivenza. Noi tre figli rimanemmo qualche mese soli, mio padre non c’era mai, tornava la sera o spariva con l’amante di turno, mio fratello, dall’alto dei suoi 15 anni, era l’addetto alla spesa, a far da riferimento alle sorelle, io ero la cuoca, mia sorella boh, forse apparecchiava, aveva poca voglia e si trincerava dietro un “non lo so fare”; la mattina andavamo a scuola, tornavamo a casa e trovavamo tutto pulito e in ordine grazie alla donna delle pulizie, poi cominciava la nostra giornata da ragazzini organizzati, con tanto di turni segnati sul calendario per lavare i piatti. Quando finalmente mia madre tornò a casa, distrutta e stanca, per me fu il giorno più bello della mia vita. Gli oncologi di Milano avevano dato istruzioni precise ai medici del nostro ospedale così da poter permettere a mia madre di fare la chemioterapia qui, terapia che all’epoca non facevano ovunque e, comunque, anche quella indicata non era ancora ben bilanciata e sperimentata come adesso. La mattina andava a lavorare ( insegnante severa ma appassionata), nel pomeriggio prendeva la macchina e andava a fare la flebo di cocktail farmacologico, tornava prima di cena, noi sapevamo che non si reggeva in piedi, quindi ci arrangiavamo mentre lei si andava a sdraiare a letto cercando di non vomitare. Una di quelle sere, proprio nel 1981, visto che la tv era anche in camera sua, avevamo deciso di farle compagnia guardando il festival di S.Remo, lei fece finta di esserne felice, sicuramente avrebbe voluto starsene in pace, al buio e nel silenzio, ma sapeva quanto ci era mancata, sapeva quanto avessimo bisogno di normalità e di lei, poi io sono sempre stata la sua cozza e ogni scusa era buona per starle vicino. Così i tre figli urlanti, ma a tono basso, perchè consapevoli, di 15, 12 e 11 anni seguivano un programma, che non amava, sdraiati accanto a lei, a rotazione le tenevamo la bacinella per vomitare, a rotazione la svuotavamo e la pulivamo, come se fosse la cosa più normale di questo mondo. Mio papà non c’era, ancora fuori con l’amante di turno, ancora fuori con la scusa di fantomatici congressi in, guarda caso, famose stazioni sciistiche, ma a noi importava che ci fosse lei…così, tra una canzone e l’altra, arrivò il turno di “Ancora” di Eduardo De Crescenzo ( canzone che, a parer mio, ha raggiunto il successo dopo molti anni, grazie a Marzullo), ogni volta che il cantante pronunciava la parola “ancora” mia madre vomitava, i conati seguivano il ritmo, sembrava un incitamento alla liberazione, quindi, nei giorni seguenti, dopo che aveva fatto la terapia, mentre vomitava l’anima, noi le cantavamo quella canzone mentre svuotavamo bacinelle.

La vita è strana, o noi, inconsciamente, ci ritroviamo a ripercorrere strade già battute nella nostra vita? Mi sono ritrovata anche io, con il cancro, con terapie devastanti, con figlie di 14 e 12 anni, con marito fuggito con l’amante…ho capito quanto amore per i propri figli scateni la forza per combattere e tener duro.

Spesso, di notte, ho talmente tanti ricordi che affiorano per un nonnulla, tanti pensieri che creano domande e mai aspettative (almeno questo ho imparato a farlo), che poi crollo, tardi, ma crollo, sperando di non sognare, sperando che i miei soliti incubi abbiano più sonno di me e che se ne stiano assopiti. Dalla notte alta all’alba è un attimo e mi ritrovo il muso del cane davanti alla mia faccia che con un secco “wof” mi dice che vuole uscire a far pipì, mi ritrovo gatti imploranti in fondo al letto che cercano, senza poca discrezione, di dirmi che sono finiti i croccantini, che è giorno e di giorno non si dorme, non si pensa, non si elucubra, perchè di giorno c’è la vita che mi tiene sveglia.

A volte ritornano

A volte ritornano, proprio quando sei convinta di averli sconfitti o perlomeno dimenticati, eccoli che arrivano con il loro bagaglio di devastazione, con le loro armi infallibili, non smetteranno mai di cercarti, loro non dimenticano chi sei.

A volte ritornano silenziosi per colpirti alle spalle, per saperti indifesa e avere la meglio senza lottare, altre volte si annunciano impetuosi usando l’arma della paura così da avere la certezza di trovarti già atterrita e indebolita.

A volte ritornano e hai abbastanza forza per combatterli, piangi per il dolore dei loro colpi che mirano sempre al cuore, ma riesci a tamponare le ferite, stringi i denti e speri che guariscano, altre volte non combatti nemmeno, ti fai prendere a schiaffi, insultare e maltrattare con la pazienza di chi sa che l’avere pazienza e aspettare che finisca il massacro sia l’unica difesa possibile.

A volte ritornano e, quando ritornano, sono sfacciati, arroganti, affamati del tuo dolore di cui si beffano per averne di più, allora tu li sfami con la speranza di vederli satolli.

A volte ritornano solo per ricordarti che ci sono, si affacciano, ti guardano e ridono di te, della tua convinzione di averli gabbati una volta per tutte.

A volte vorresti avere più rabbia nel combatterli, a volte vorresti che almeno un colpo fosse mortale per toglierli il gusto del loro gioco perverso, game over per tutti. Ti immagini pure nello scontro finale: finalmente dritta, davanti a loro … mirate qui, mirate bene…Ma loro non lo farebbero mai, ti hanno cresciuta e un pò si sono affezionati, non lo farebbero mai e non sai se per egoismo o per rispetto.

Vanno chiamati con il loro nome, mi dicono, per non dargli importanza, ma loro non sono sogni, si chiamano incubi, non sono insicurezze, si chiamano assenze, non sono piccole delusioni, sono lutti continui, non sono lacrime ma disperazione, i vuoti sono rifiuti,  la paura diventa terrore, terrore di guardarsi allo specchio, terrore di essere fraintesa, terrore di non riuscire a combattere, perchè si, loro a volte ritornano e urlano che non sei degna di essere amata e rispettata, non lo meriti, ti impongono di stare a testa bassa perchè non meriti nemmeno di guardare il cielo, non meriti di trovare pace guardando finalmente la luce, non combatti, accetti, guardi per terra sperando di vedere la luce riflessa nella tua pozzanghera di lacrime.

A volte ritornano, oggi sono tornati, bentornati miei demoni.

Leggi mentre ascolti: https://youtu.be/C0Y0GvfrV6c

UNA MONDIALE BOTTA DI VITA

Non mi ricordo esattamente se fosse stato il 9 o il 10 o quale altro giorno prima dell’11 luglio del 1982, ma ricordo benissimo che mio padre uscì dicendo che avrebbe fatto tardi perché doveva accompagnare suo fratello all’aeroporto, niente di strano, succedeva spesso di accompagnare chi, dovendo partire per più giorni, non volesse lasciare la macchina incustodita. Erano i giorni dei mondiali di calcio, erano giorni d’estate in cui l’aria della sera si riempiva di odore di cocomero e di rumori di televisioni accese, ma quella sera mio padre non tornò. All’epoca non esistevano i cellulari, non potevi raggiungere telefonicamente chi non avesse un recapito telefonico fisso, non esistevano quegli aggeggi satellitari che danno la posizione di chi stai cercando, né ancora erano saltate fuori le idee complottiste su fantomatiche installazioni di microchip sottocutanee atte a controllarci tutti da un presunto grande fratello, quindi, se sparivi, ti venivano a cercare, forse, dopo qualche settimana. Mio padre non tornò nemmeno il giorno dopo, mia madre manteneva una preoccupazione silenziosa in modo da non mettere in ansia noi tre figli, poi, da quanto ci diceva, non era la prima volta che spariva nel nulla, quindi, zitti e fiduciosi abbiamo continuato la vita di sempre, ma la vita di sempre non poteva essere vissuta senza mio padre proprio durante la finale dei mondiali: lui, che non si perdeva una partita nemmeno la domenica, che giocava a pallone anche dormendo, che tifava rumorosamente sgranocchiando pacchi di semine davanti alla tv, non poteva non esserci, chi avrebbe piazzato la televisione sul terrazzo per stare più freschi, chi avrebbe urlato al posto suo, chi si sarebbe avvolto in una nuvola di fumo di un intero pacchetto di sigarette?

Così, eccitati per la finale ma mesti per l’assenza di nostro padre, ci siamo piazzati davanti al televisore e abbiamo fatto affidamento sui commenti dell’unico uomo di casa presente in quel momento: mio fratello. Io non capivo un granché delle regole calcistiche ( un pò per la mia tenera età e un pò perché non me ne importava), quindi mi affidavo alle sue reazioni: se gioiva gioivo, se si stizziva mi stizzivo, se guardava ammutolito ma in tensione mi ammutolivo tesa pure io. La partita procedeva tra un “olè” e qualche “nooo”, ogni tanto la telecamera che riprendeva l’evento inquadrava anche gli spalti, faceva vedere da lontano i tifosi che affollavano lo stadio, poi zoommava su particolari: il nostro presidente della Repubblica che stringeva la sua pipa tra i denti e si alzava ogni qualvolta c’era un occasione di goal, si vedevano i visi degli spettatori dipinti con i colori della propria nazione, si intravedevano altri volti tesi avvolti in bandiere, vedevamo, invidiandoli un pò, i tifosi che si alzavano e urlavano nel momento in cui il pallone finiva dentro al rete, ma…quello che si stava sbracciando aveva un’aria familiare…in pochi minuti abbiamo risolto il mistero della scomparsa di nostro padre: era a godersi la finale direttamente in loco!

Il giorno dopo, o quello dopo ancora, non ricordo bene, ecco che spunta dal cancello di casa, preceduto da scampanellata insistente, nostro padre, avvolto nel tricolore, gridando un classico “Campioni del modo! Campioni del mondo!” Noi tre muti ma a bocca aperta, mia madre non muta e molto contrariata, abbiamo ascoltato i racconti di colui che aveva vissuto dal vivo l’evento e alla domanda “Ma potevi dirci che andavi li?” è stato risposto:

“Io sono andato ad accompagnare mio fratello all’aeroporto e proprio quando ero li, hanno avvisato dall’altoparlante che si era liberato un posto sul volo diretto a Madrid con partenza immediata e non ci ho pensato due volte, ho preso il biglietto e sono andato, che botta di vita ragazzi!”

Lui le chiamava “botte di vita”, oggettivamente erano “colpi di testa”, mia madre le chiamava “follie da irresponsabile” (con noi non usava parolacce, quindi tradotto, le “follie” diventerebbero “cazzate”).

Ieri sera ho guardicchiato la partita, non volevo guardarla in toto per la paura di portare sfiga ( il goal dell’Italia è arrivato quando sono andata a fare pipì, quindi mi sono ingozzata di acqua tutta la sera…), ma, dai tempi supplementari in poi, mi ci sono incollata e, con lo sguardo, cercavo lui tra gli spalti, sicuramente non se la sarebbe persa, avrebbe coinvolto il nipote inglese in una diatriba e lo avrebbe convinto a tifare Italia, questa volta avrebbe avuto un telefonino e ci si sarebbe fatto degli incredibili selfie, avrebbe intonato cori e coinvolto sconosciuti compagni di curva, purtroppo lui non era lì, ma nel mio cuore c’è sempre perché la sua breve esistenza fatta di “botte di vita” lo ha reso indelebile e immortale.

TUTTO BENE

Qualche giorno fa, fuori dalla segreteria della scuola delle mie figlie, ho incontrato una mia conoscente ( dopo le fregature e dolorose delusioni date da amiche ventennali la parola “amica” la uso con parsimonia) che non vedevo da qualche anno che mi ha chiesto:

-Ciao, come stai?

– Bene, grazie, a parte questo caldo che mi rende nervosa e mi fa gonfiare il braccio…

– Hai sempre avuto problemi con il braccio, me lo ricordo…

In una frazione di secondo, mentre rispondevo “bene”, mi sono passati davanti gli ultimi anni, proprio quelli passati dall’ultima volta che l’avevo vista, quindi “bene” era la risposta giusta? O dovevo rispondere così:

” Per me stare bene è riuscire ad arrivare a fine giornata, non ho sempre avuto problemi con il mio braccio, sono cominciati da quando è stato privato dei suoi linfonodi, perché, non lo sai? Non sai che quella mattina di qualche anno fa, dopo aver ricevuto una raccomandata, firmata da mia sorella e mio fratello, da parte dell’avvocato che TU hai consigliato ai miei parenti, in cui mi si chiedeva di togliermi dalle balle, mi si sottolineava la magnanimità e la pazienza avuta dai miei fratelli nel permettermi di abitare in un terzo di una casa, che per un terzo è anche mia, costringendo così i poveri coeredi a non trarre benefici economici dal bene comune ( ma venderla no, non era una scelta giusta per mia sorella…), proprio quella mattina, con le lacrime strozzate in gola per le pugnalate mandate via whatsapp dall’amante di quello che era mio marito, mi hanno diagnosticato il cancro, anzi due, anzi, due più un grosso oggetto non ancora definito ma non asportabile. Non lo sapevi? Eppure avresti dovuto saperlo…Non sai, quindi, nemmeno del terrore, della fatica, della ricerca di forze che mi facessero uscire dal letame sotto cui mi avevano ricoperta? Non sai quanto sia stato difficile vivere due settimane con un aggeggio, chiamato drenaggio, attaccato al mio corpo per evitare infezioni e complicazioni e poi trovarsi con infezioni e complicazioni e, sempre da sola come un cane, portare le palle tutti i giorni in ospedale per essere siringata, medicata e redarguita sul fatto che io non potessi guidare, muovermi, fare sforzi e sudare in pieno agosto? Hai trovato appassionante il racconto su come le mie amiche storiche mi abbiano dato il ben servito perché, a parer loro, ero troppo concentrata sui miei problemi e non stavo al passo con le loro esigenze? Ti hanno messa al corrente di come sia riuscita ad affrontare terapie devastanti, effetti collaterali dei farmaci bastardi quanto bastardo è quello che devono combattere, le polmoniti ricorrenti e a gestire da sola due figlie non ancora abbastanza grandi da potersela cavare senza di me? Non ti hanno raccontato di quanto abbia lottato per far si che le parole “carcinomi” e “metastasi” non mi provocassero attacchi di panico per l’incertezza della certezza di un futuro? Dimmi, dimmi, ti hanno spiegato perché ho affrontato tutto da sola? Ti hanno detto come mai, cotta e bruciata dalla radioterapia, arrivavo a casa la sera trovando le figlie sole e affamate che non potevano capire cosa mi stesse succedendo? Ah, no? Beh, chiedi alla tua cara amica, perché lei sa di non sapere e di non aver voluto sapere. Ora sto bene? Dai, diciamo che ho molto spirito di sopportazione, però, in questo momento, non vedo l’ora di tornarmene a casa, non solo per sfogare il pianto provocatomi dalla segretaria della scuola quando mi ha detto che le mie nipoti a settembre cominceranno il liceo ( appena sento parlare di loro piango, mia sorella non me le fa vedere da anni, non ho ancora capito il perché, cosa abbia fatto di così brutto da essere considerata come già morta…forse a te lo ha detto?) ma anche perché il dolore che ho al braccio è davvero diventato insopportabile e l’unica cosa che può lenirlo è un farmaco che mi hanno dato i medici, ma è un oppiaceo, a dire il vero ottimo anche per i costanti dolori alle ossa che mi provocano altri farmaci, ma non ne voglio abusare, lo prendo solo quando proprio non riesco nemmeno a camminare perchè mi lascia stordita tutto il giorno e come faccio a vivere stordita con due figlie da gestire? Come faccio ad abbassare la guardia e a dormire quando la sedicenne esce la sera bardata di sguardo di una che ti dice solo un terzo di verità? Aspetto il momento in cui posso permettermi di stordirmi e lo prendo, nel frattempo stringo i denti e resisto, come sempre, io resisto agli urti della vita, ai pregiudizi e preconcetti che incontro ogni giorno, resisto alla fama di “persona cattiva” che ho raggiunto grazie ai miei parenti, resisto, si, ma a forza di ammaccature sono un catorcio ed è vita?”

Quindi come sto?

Bene, ma non benissimo.

PAROLE VIRALI

Ormai, ai tempi della pandemia, le nostre vite sono cambiate, spesso non ce ne accorgiamo, altre volte invece siamo consci del cambiamento perché ci risulta pesante da affrontare visto che è ancora difficile perdere abitudini consolidate. I mutamenti sono molteplici, ad esempio: il rapporto con il prossimo si è fatto quasi occasionale e il distanziamento tra persone non significa più tenersi alla larga da chi non sopportiamo, e l’approccio con chi non si conosce è più cauto; è cambiata l’istruzione e l’informazione, ormai ci siamo abituati a parlare di percentuali e indici e a imparare su lavagne elettroniche senza nemmeno alzarci dal letto o preparare la cartella; ci sono usi e costumi che scompaiono per lasciar posto ad altri, persino i programmi televisivi sono cambiati, per esempio, nei talkshow si assisteva a dibattiti che trattavano principi politici di vita politica, ora i politici si occupano della salute del loro elettorato e parlano come medici mentre i medici sono finiti in tv a parlare come politici, persino guardando i programmi più ameni e poco impegnativi ci troviamo a stupirci se vediamo del pubblico presente e, con un pò di invidia, ci chiediamo se siano stati vaccinati, tamponati o scannerizzato prima e, soprattutto, dove sono finiti quei programmi da vecchietti in cui si parlava di salute spaziando tra sciatica, cataratta e botta di gotta? Ora sono diventati monotematici e molto poco asintomatici. E’ vero, tutto cambia a prescindere da virus o elementi esterni alla nostra vita, la vita è movimento di per sé e andando avanti non ci rendiamo conto che siamo già cambiati, ma questa volta è un cambiamento epocale e globale che, quasi universalmente, sta modificando persino il modo di parlare e di comunicare con il prossimo, non che si sia ampliato il vocabolario con nuovi termini, sono le parole che assumono significati differenti, quindi, per esempio, se due anni fa una madre chiedeva alla figlia che stava per uscire di casa “Hai preso la mascherina?” si dava per scontato che la figlia stesse andando a una festa di carnevale, ora la stessa frase non ha lo stesso riferimento perché la domanda può essere posta solo per il fatto che la figlia stia uscendo, a prescindere dalla motivazione della sortita. Un ipotetico dialogo fra due persone fatto oggi non sarebbe stato compreso solo pochi anni fa:

“Ciao, come stai? Sei riuscita a fare il tampone?”

“Ciao, no, non ancora, visto che siamo rossi le prenotazioni erano piene quindi dovrò aspettare o, meglio, optare per un sierologico in farmacia, nel frattempo rimango a casa tanto siamo in lockdown e posso lavorare in smartworking. Ormai faccio tutto da casa, anche la spesa, pensa che ho trovato delle mascherine carinissime per i bambini che costano molto meno di quelle che trovi nei negozi! Tu? Come procede?”

“Bene, dai, siamo arancioni quindi ancora un pò limitati ma prossimamente passeremo al giallo così i ragazzi potranno abbandonare la dad e andare a scuola, anche se mi fa paura l’idea che si possano toccare o assembrare, te lo immagini cosa succederebbe se portassero a casa il corona? Mio suocero è un under 70 quindi non ancora coperto ma a rischio, mia nonna è in RSA chiusa da mesi e non può essere toccata, io sono a elevata fragilità quindi sarei fregata da subito. Tuo marito? Come fa con il lavoro?”

“E’ un disastro, apri chiudi, chiudi e apri, comincia a essere sempre più nervoso, poi il coprifuoco gli sta stretto, prima o poi farà la pazzia di rimanere aperto tutta la notte, il tuo? Si sente più tranquillo ora che è vaccinato?”

“Si, decisamente si, continua a lavorare con le solite protezioni di tuta, occhialoni, schermo protettivo, guanti, lui dice che è ancora un inferno là dentro e da fuori non si rendono conto della pericolosità e pesantezza del suo lavoro. E tuo marito ha fatto la prenotazione o non l’hanno ancora aperta? “

“Guarda, è riuscito a prenotarsi giusto in tempo per trovare un centro vaccinale non troppo lontano da noi, se continuano con questo ritmo presto toccherà anche a me!”

“Scusa ora ti devo lasciare che mi è suonato il pulsossimetro e devo fare l’ossigeno, comunque ci sentiamo presto, perché ti devo dare una ricetta fantastica per fare il gel a casa!”

“Brava, ricordatelo che a scuola vogliono che ogni bambino abbia il suo e mio figlio ne usa tantissimo! Ciao cara, buona giornata.”

Sembra tutto normale, no? Nel leggere tale conversazione capiamo che sono due amiche o parenti, che vivono in regioni diverse, che una deve fare l’esame per verificare la positività o meno al virus, il marito di una di loro lavora in ospedale mentre il marito dell’altra ha un’attività commerciale, banalità comprensibili a tutti…oggi.

Cosa avrebbe capito una persona due anni fa leggendo questa sorta di dialogo dal futuro?

Due amiche parlano al telefono e una chiede all’altra se ha fatto il tampone, probabilmente ha mal di gola e vuol sapere se batterico (un tempo c’era l’ansia da streptococco, ora nessuno se lo ricorda nemmeno più), però se può ottenere lo stesso risultato anche con test di farmacia potrebbe essere incinta o sospetta che il figlio si faccia le canne e vuole fargli un test anti droga mentre dorme? Purtroppo vive in un paese dove sono tutti rossi, quindi di comunisti, e i posti per effettuare tali tamponi sono pieni, ergo: i comunisti hanno tutti mal di gola, oppure, copulano come ricci e i test di gravidanza vanno a ruba, o, infine, hanno tutti figli cannabis dipendenti. Inoltre deve aver avuto problemi con la serratura di casa perché è rimasta chiusa dentro però, a quanto pare, può accedere al garage così lavora nella sua smart ( chissà che lavoro si può fare in macchina…uhm…); sicuramente ha figli piccoli, quindi niente cannabis dipendenza, per i quali ha comprato on line l’occorrente per una festa in maschera. Continuando l’analisi della conversazione con gli occhi di due anni fa si può pensare che l’amica, e forse tutta la sua famiglia, sia diventata buddista da poco perché ancora non si è abituata a un regime alimentare più restrittivo quindi sa già che tra poco saranno tutti itterici, ma ne sembra felice perché i figli potranno tornare a scuola abbandonando una certa Dad ( che sia dada, da tata detta con raffreddore?) anche se teme che a scuola compiano atti osceni toccandosi a vicenda con i compagni in una sorta di orgia di gruppo, in tale marasma la madre spera che non portino a casa un amico che di cognome fa Corona, forse teme la parentela con un noto personaggio e l’eventuale influenza negativa? Suo suocero è un grande sportivo perché sicuramente gioca ( a tennis, calcio, pallavolo o che ne so) nella categoria under 70 ma non si capisce se sia preoccupata perché va sempre in giro mezzo nudo o perché, nel gioco di squadra, non viene coperto dai compagni e rischia di prendere colpi; intanto sua nonna è in casa di riposo e, a quanto pare, lì nessuno la può toccare ma non si capisce se sia nel senso che finalmente ha ottenuto il posto letto e nessuno la può più rimandare a casa o che ha solo ottenuto il posto letto ma non l’assistenza infermieristica, quindi sta marcendo nel pannolone, fortunatamente lei stessa ammette di essere un soggetto molto fragile ( ne dava sentori dai racconti un pò sconclusionati e dalle paure assurde), forse i nervi stanno cedendo? Quando chiede alla sua interlocutrice notizie del marito si evince che, quest’ultimo, deve essere un portinaio, forse di un palazzo abitato da scansafatiche o da monchi visto che solo lui apre e chiude la porta, oppure potrebbe lavorare come agente carcerario, vista l’esistenza di un coprifuoco, ed è stufo di passare le giornate ad aprire celle, chiudere celle, tanto che la moglie teme che prima o poi lascerà tutto aperto. Il marito della buddista con l’ittero si è vaccinato, forse un antinfluenzale, forse un antitetanica o anche un antirabbica e da questo è possibile che lavori come addetto alla cura di animali di uno zoo, oppure potrebbe fare il palombaro, ma no, l’opzione zoo calza a pennello con la definizione di lavoro pericoloso: pulire una gabbia dove ci sono dei leoni che non mangiano abbastanza è pericoloso e lui, appena diventato arancione come la moglie, forse si rifiuta di cibarli con carne di animali morti e gli lancia le banane che sottrae alle scimmie che, a loro volta, sottraggono il cibo ai visitatori e sono diventate tutte a rischio infarto per eccesso di trigliceridi e colesterolo. La buddista chiede all’amica quanti anni abbia suo marito e, dalla risposta, possiamo capire che dovrebbe avere un’età compresa tra i 55 e i 60 anni e che lei è molto più giovane del marito. La conversazione finisce perché la buddista ha un aggeggio che l’avvisa quando è il momento giusto per ossigenarsi i capelli, deve essere una fanatica dei capelli visto che prepara lei il gel a casa, sicuramente sarà un gel biologico che non li danneggia perché l’amica vuole assolutamente la ricetta per poterlo fare per il figlio che, quotidianamente, va a scuola con una sorta di leccata di mucca in testa e si porta la confezione in cartella per mantenere tale lucidatura appena sente che i capelli si muovono.

Assurdo? No, affatto. Siamo i protagonisti di una storia che passerà alla storia, i nostri attuali comportamenti modificheranno il nostro futuro e verranno studiati, analizzati, criticati, elogiati, massacrati e confrontati da chi si occuperà di storia, di sociologia, economia e psicologia e, come dopo una grande guerra, ci saranno stati che ne usciranno bene, altri un pò ammaccati e altri si troveranno a dover fare i conti con la devastazione, quindi siamo in guerra e, come in tutte le guerre che si rispettino, dobbiamo armarci, ma di buon senso, dobbiamo avere buoni alleati, chiamati vaccini, dobbiamo avere una strategia efficace e non accomodante visto che oggi, per strategia, si intende quell’insieme di regole e restrizioni che tanto mal sopportiamo. Sicuramente non ne usciremo migliori come ipotizzavamo l’anno scorso, anche perché lo dicevamo con la convinzione che la fine dell’incubo fosse quasi arrivata, ma ne usciremo e visto che dobbiamo fare la storia, almeno facciamola bene!

SOLDATI

E’ passato appena un mese dalla riapertura delle scuole e ancora sembra che il problema principale, ciò che impedisca di tenere a bada questo cavolo di virus, siano le scuole, sarà, ma a me non pare, e parlo per esperienza personale…Dopo un’estate in cui sembrava che nulla fosse successo nei mesi precedenti, finalmente era giunto il momento di tornare a scuola, certo, non è stato un rientro “normale”, la scuola delle mie figlie aveva preventivamente fornito tabelle in cui cercare la propria classe, l’orario di entrata e il corrispondente accesso di ingresso, nonché la mappa dell’edificio scolastico in cui venivano segnalate le aule di appartenenza alle classi e i relativi corridoi e gli ingressi da seguire per accedervi e i bagni assegnati alle singole classi, seguivano circolari di raccomandazioni, regole igieniche, regolamenti interni che contemplano anche le modalità con cui arrivare a scuola: tenere la mascherina anche nel tragitto casa-scuola sia per chi arrivi in auto che per quelli che giungono con mezzi a due ruote, tale mascherina, appena giunti a scuola, deve poi essere depositata in un sacchetto e l’alunno deve indossare subito la mascherina chirurgica distribuita dall’istituto scolastico. Nessuna citazione, raccomandazione, regola o altro per chi arriva a scuola con mezzi pubblici. Ammetto che l’autobus è poco utilizzato per arrivare a questa scuola, in molti hanno la macchinina, lo scooter o un genitore che fa da autista proprio perché non ci sono autobus che portino fin li (ne esiste solo uno che parte alle sette del mattino, ma che non passa dalla zona in cui abito, dovrei portare le figlie alla fermata che dista da casa circa gli stessi chilometri che devo percorrere per portarle a scuola), è da anni che noi genitori residenti verso mare chiediamo la possibilità di avere un autobus verso e da il paese limitrofo in cui sorge la scuola, ma niente, ci hanno sempre risposto che non è conveniente, ma un dubbio mi ha sempre assalito: ho frequentato anche io la stessa scuola, mi sono sempre avvalsa dei mezzi pubblici per arrivarci, mezzi che coprivano tutte le zone anche se noi studenti eravamo pochini, sicuramente meno degli studenti di oggi, sarà che il passare del tempo abbia fatto passare la scuola all’ultimo posto delle istituzioni necessarie per poterci definire una società civile? Ma vabbè…

Prima settimana di scuola: porto diciassettenne alle 9, sedicenne alle 10, riprendo diciassettenne alle 11 e sedicenne alle 12 ( ogni anno, fino a ottobre, gli orari sono dimezzati perché ancora non sono stati nominati gli insegnati, ogni anno, ripeto, ogni anno…ma l’arte di imparare dagli errori?), questo per i primi quattro giorni perché, all’alba del quinto giorno la sedicenne mi dice di non stare bene e il termometro dichiara un allarmante 37,5, proprio la temperatura per cui scatta l’allarme virus. Tengo a casa sedicenne febbricitante e diciassettenne protestante ( ha paura di perdere ore di lezioni vitali perché ha l’ansia da esame di maturità), come da regolamento, chiamo il mio medico di base, mi chiede i sintomi, che sono solo febbre e stanchezza, mentre parla al telefono con me fa subito richiesta per tampone e, nel giro di qualche ora, ottengo l’appuntamento per il tampone nel drive in per il giorno dopo. Nel frattempo, sempre come da regolamento, la sedicenne viene confinata in camera sua, fortunatamente ha il secondo bagno vicino, la diciassettenne si barda con doppia mascherina e guanti ancora brontolando ma questa volta perché, secondo lei, io e sua sorella siamo soggetti che sicuramente si ammaleranno gravemente e lei dovrà gestirci ma quest’anno non può permettersi distrazioni perché, ribadisce per la milionesima volta, ha la maturità…io comunque sto bene, la sedicenne meno, mi manda messaggi vocali implorandomi di andare da lei, sta male e vuole la mamma, la diciassettenne si piazza davanti alla porta di camera della sorella impedendomi di entrarvi, dice che le regole sono ferree; intanto la febbre sale, salgono anche le richieste della sedicenne: fazzoletti, acqua, succo, cracker, biscotti, qualcosa per il mal di gola, tachipirina, acetone, acetone????? “Mamma, mica posso stare con lo smalto rovinato??” Eh già…finalmente arriva il momento del tampone in macchina, io l’accompagno bardata di tutto ciò che può tenere a distanza qualsiasi cosa voglia avvicinarsi a me, guido con tutti i finestrini aperti, tanto la figlia la febbre ce l’ha già, tutto procede, nessuna coda, nessuna attesa, la sedicenne piazza il suo cellulare in posto strategico, a mia insaputa, e si fa il video del suo tamponamento, giusto per aggiornare le amiche.Torniamo a casa e lei torna ai suoi arresti domiciliari in camera, le vengono serviti i pasti dalla sorella che si affaccia in camera sua con il suo solito doppio strato di mascherine e doppio strato di guanti. Il lunedì mattina all’alba arriva l’esito: negativo. Finalmente torno a fare la mamma e vado subito a coccolarmi la malata. La diciassettenne torna a scuola, le quinte e le prime fanno didattica completamente in presenza, la sua ansia è sistemata, le altre classi vengono suddivise in quattro gruppi che, a rotazione, seguiranno le lezioni a distanza per una settimana, la sedicenne, forse complice il febbrone ancora in corso, chiede di seguire comunque le tre misere ore di lezione on line, insieme al gruppo di turno, l’insegnate però si oppone alla sua presenza da remoto, le dice che per seguire deve essere in presenza e che, se sta male per andare a scuola, allora deve essere assente e, nonostante la ragazza rimanga collegata per partecipare alle lezioni, la segna assente; nel frattempo vengo contattata dalla segretaria della preside avvisandomi che sono arrivate voci sulla possibile positività di mia figlia, le spiego che non si tratta di covid ma mi chiede di inviare comunque una mail alla preside, per tranquillizzarla, allegando anche il risultato del tampone. Arriva mercoledì, la sedicenne ha ancora la febbre alta ma è anche il giorno in cui scatta il suo turno di didattica a distanza e, anche se rimbambita, segue per evitare l’assenza che però è costretta a fare il giorno in cui la porto a fare le analisi del sangue.

Mononucleosi. La signorina si è presa la famigerata malattia del bacio ma non voglio sapere dove e quando. Intanto i giorni passano, la ragazza sta meglio, vuole tornare a scuola, scalpita e protesta per andare a scuola?? Intanto i ritmi scolastici riprendono la normalità e da ottobre si ricomincia con le sei ore di lezioni quotidiane, ma gli ingressi e le uscite sono scaglionate, alcune classi entrano alle 7.45, altre alle 7.55, altre alle 8.05, quindi: ne porto a scuola due, una esce dall’auto dieci minuti prima dell’altra, l’altra sta in macchina a protestare per 10 minuti, all’uscita sale in macchina quella che ne era uscita per prima e se ne sta a protestare per tutto il tempo dell’attesa dell’uscita della sorella. Brontolano ma son solo 10 minuti…Intanto la loro scuola funziona, sono talmente attenti che la diciassettenne viene messa in aula covid, per i suoi soliti dolori mestruali, in attesa che la vada a prendere; mi sembra che, in questo momento, la scuola sia il posto più sicuro dove mandare i propri figli: la mascherina la tengono anche in classe, nonostante ci siano le distanze tra banco e banco, le ricreazioni vengono scaglionate come per gli ingressi e le uscite, su due ricreazioni una deve essere passata in aula e l’altra in giardino ( tempo permettendo) o in corridoio, in entrambi i casi gli spazi sono suddivisi, ogni classe ha il suo spazio, delimitato come una scena del crimine, da strisce fosforescenti, l’insegnante di turno vigila il rispetto delle regole, l’insegnante della prima ora va a prendere la propria classe direttamente al cancello assegnato e quello dell’ultima ora accompagna la propria classe al cancello di uscita, controllano che tengano le mascherine finché sono nei pressi della scuola, insomma, gli insegnanti stanno facendo veramente di tutto per far si che la scuola funzioni e rimanga aperta, ogni tanto si sbagliano, viste le numerose campanelle che suonano ogni ora a seconda del turno di ingresso, a ogni turno di ricreazione, a ogni turno di uscita, però vigilano, redarguiscono, a ogni starnuto mandano l’alunno in aula covid e scatta la procedura, si, c’è anche l’insegnante un po’ svanita che dice ai ragazzi di poter abbassare la mascherina quando hanno bisogno di tossire, ma meno male che i ragazzi sanno che non si può fare e glielo ricordano. Giorno dopo giorno si sta instaurando un rapporto di complicità tra i ragazzi e i loro professori: si scambiano consigli su igienizzanti, dritte su gocce che impregnino la mascherina di antibatterico con odore balsamico per tollerare meglio le sei ore, cercano soluzioni geniali per non avere gli occhiali appannati, insomma, come sempre, ci si adegua a tutto, basta volerlo.

Non so se questa sia la scuola che troviamo in ogni parte d’Italia, io penso e spero di si, allora perché, appena salgono i contagi, si chiede subito la chiusura delle scuole? Il problema sono i mezzi di trasporto? Blocchiamo i mezzi pubblici o cerchiamo una soluzione al problema? Mi sembra ovvia la risposta, ma la soluzione deve riguardare prettamente l’organizzazione dei mezzi non deve andare a creare un altro problema come la chiusura delle scuole, è come se per mettere una toppa a un vestito ne creassi un’altra solo per prendere altra stoffa, il buco si copre da una parte ma si crea da un’altra. Non togliamo ai ragazzi la scuola, nemmeno azzardiamoci a fare distinzioni tra chi potrebbe seguire solo a distanza, perché le ultime classi delle scuole superiori dovrebbero stare a casa e le altre no? C’è chi si appella al fatto che più sono grandi i ragazzi più si assembrano la sera, sarà, ma io vedo assembramenti anche di adulti, assembramenti di pre adolescenti di giorno, assembramenti di chiunque voglia fregasene delle regole. Ogni classe di ogni grado di scuola è un’esperienza di crescita per i nostri figli, loro hanno voglia di andare a scuola e già questo ci dà la misura per valutare il problema perché aver voglia di andare a scuola non è normale alla loro età, devono quindi tornare alla loro normalità, anche se con regole severe, devono tornare a non avere voglia di andare a scuola perché ne sono sazi. Il problema non è a scuola, è fuori dalla scuola.

Gli studenti sono oggi come soldati: li dotiamo di armi (mascherine), partono per il loro fronte con zaini pieni di libri, speranze e gel igienizzante, ubbidiscono alle regole, sottostanno a ordini, difendono il nostro e il loro futuro, si adattano a situazioni difficili, alcuni lo fanno con orgoglio e coscienza, altri per una sorta di “chiamata alle armi” a cui non possono sottrarsi, purtroppo, fuori dalla scuola, diventano un esercito senza comandante, senza controllo, ma si preferisce lasciarli allo stato brado, chiudendo le scuole, per risolvere il problema dei trasporti… E se li munissimo di paracadute e li lanciassimo dall’alto ciascuno sopra la propria scuola? Sono soldati e i soldati fanno anche questo…

SI STA COME

D’AUTUNNO

SUGLI ALBERI

LE FOGLIE

G.Ungaretti
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