MUTAMENTI
Ieri nono giorno della fase due e primo spostamento “lungo”, senza cambiare provincia però! Che effetto strano mi ha fatto percorrere l’autostrada, guardare fuori dal finestrino come se fosse la prima volta che vedevo quel panorama veloce di case, campi, colline, mare, tetti e strade, in mano avevo la mascherina, in borsa i guanti, l’autocertificazione e il gel disinfettante, ormai questo è un set che non possiamo dimenticare a casa, meglio scordarci il telefono o le chiavi. Quindi la prima uscita, stanata dal mio rifugio sicuro con riluttanza, per andare al solito controllo oncologico, non è una gran bella meta turistica ma, di questi tempi, un’uscita è pur sempre un’uscita a prescindere.
Ingresso in ospedale tranquillo, divieto di indossare i guanti ma obbligo di disinfettarsi le mani, quindi ho spalmato un chilo di gel, mi hanno sparato il led della temperatura sulla fronte, ho dichiarato le motivazioni della mia visita e imboccato la scala mobile per andare al reparto. Mi sono sempre piaciute le scale mobili, fin da bambina, e, proprio come una bambina, continuo a tenere un piede su un gradino e l’altro sul gradino sottostante (la distanza di due gradini ormai l’ho abbandonata), a tenere le braccia aperte per afferrare il passamano che scorre sotto le mie mani, uno a destra e uno a sinistra, non ho mai capito quelli che prendono la scala mobile per poi salirla velocemente come se dovessero vincere una gara, io mi godo questo trascinamento e non muovo i piedi finché non scorre più niente sotto di loro. Anche ieri mi sono crogiolata in questa mia passione immatura, solo che, finita la salita, mi sono resa conto di aver tenuto le mani dove chiunque le può tenere, quindi dubbio: la mia disinfezione col gel era andata a farsi benedire? Resto concentrata per non toccare più alcunché, intanto l’ansia di dover rimanere concentrata per non toccare niente mi provoca una sudorazione facciale notevole, la mascherina mi si appiccica, gli occhiali si appannano e mi sorge un altro dubbio sulla possibilità di tirar fuori un fazzoletto per detergere tutta questa condensa, l’ansia mi fa pendere per l’inopportunità del gesto, quindi proseguo. Passo davanti al bar interno che è aperto, aperto? Odore di caffè, che emozione risentire l’odore di caffè del bar, il rumore dei cucchiaini appoggiati sui piattini, l’aroma di brioches che, seppur surgelate, appena sfornate sembrano capolavori di pasticceria, ma ho un appuntamento, le mani appiccicate dal troppo gel strusciato sul corrimano della scalamobile e la sudarella, quindi cerco di convincermi che il bar fosse una sorta di miraggio nel deserto e arrivo al reparto. Altro gel, accettazione, numero in mano e poltroncina d’attesa ben distanziata, solo cinque persone possono attendere, nessun accompagnatore, nessun orpello, non era più la sala d’attesa piena, con posti liberi solo in piedi, con persone cupe e rassegnate accompagnate da parenti ammutoliti o da volontari caciaroni, eravamo cinque, in attesa, con la mascherina appiccicata, il numero in mano e lo sguardo rivolto al monitor che doveva avvisarci della chiamata, stop, silenzio surreale.
Finalmente tocca a me, entro nell’ambulatorio e mi accorgo che la sedia davanti alla scrivania della mia dottoressa, sulla quale solitamente sedevo, era stata spostata, un po’, un bel po’! Praticamente io ero seduta accanto alla porta e la dottoressa in fondo alla stanza, mi sono avvicinata per darle tutte le analisi da controllare, come se stessi compiendo un’azione illegale, e mi sono seduta. La conversazione a distanza, con mascherine, sembrava quella tra due sorde vecchiette, ma tutto è andato bene, anche la notizia che il risultato del test genetico finalmente era arrivato, vabbè, ho pensato, è stato fatto per routine, poi me ne hanno fatti fare due perché il primo non era convincente, va tutto bene, sto benino, quindi posso archiviare anche questo, no? Eh no! Mi si avvisa che ho una variazione genetica sconosciuta e che, oltre che mettere al corrente tutti i componenti della famiglia perché anch’essi potenziali portatori della stessa mutazione, devo ricominciare a fare controlli molto più serrati, urge risonanza magnetica, perché le varie analisi appena fatte non sono sufficienti a escludere una recidiva perché, mi si fa capire, io ho il cancro nel dna, quindi non me lo posso scordare come mero incidente di percorso, vive con me e, se e quando vorrà, potrà spuntare a far cucù…che cucù! Mi riempiono di fogli, prescrizioni, appuntamenti e dubbi e mi precipito alla porta di uscita del reparto. Ho la mascherina fradicia, le mani sudate e sempre più appiccicose, mi scappa la pipì, e l’aroma del caffè torna a torturarmi il naso, anche se ben nascosto, penso a come dovrei fare per contattare tutto il parentado visto che, ahimè, mia nonna paterna ha partorito sedici volte (per fortuna ne sono sopravvissuti “solo” dodici…) e i suoi figli si sono riprodotti e i figli dei suoi figli si sono riprodotti a loro volta, ma almeno mia mamma era figlia unica, quindi il problema è dimezzato. Decido di portarmi la pipì che scappa fino a casa, per non farmi venire altra ansia da bagno e da cosa toccare, e raggiungo l’ex marito che mi aveva accompagnata (la mia auto non ce la fa più, i suoi quasi sedici anni li sta sentendo tutti).
Va tutto bene, sono solo un po’ mutante, devo avvisare tutti i miei parenti che potrebbero essere mutanti e rifare un’altra risonanza. Tutto bene. Lui è tranquillo per me, meno per la possibilità di ereditarietà genetica che potrebbero avere le nostre figlie, forse sarà un motivo in più per maledire il giorno che mi ha incontrata o forse proprio non ha pensieri alcuni, non lo so, però, vista l’ora tarda, mi propone un panino sull’autostrada. Poco prima di raggiungere lo svincolo, il mio autista gira dalla parte opposta e si infila nella corsia di un Mac Drive…Lui? Quello che le schifezze no, nemmeno sotto tortura? Taccio, mi godo il momento e mi faccio prendere ciò che Joe Bastianich mi sta proponendo con sguardo ammiccante. Il momento di goduria dura poco: si mangia in macchina, ok, ma senza fermarci perché è tardi, quindi io mi ritrovo con sacchetti di carta che scottano in braccio, sacchetto con bibite tra i piedi, telefono in mano per rispondere alle figlie ansiose di avere un orario preciso del mio rientro (e son sicura che l’interessamento non era per un moto di mancanza di mamma, ma proprio per godersi il tempo senza la mamma!), cerco di non far disastri, non è la mia macchina, porgo panino e patatine al guidatore che, come se non mangiasse da mesi, ingurgita il tutto in due minuti, metto la sua bibita nel porta bibita, sistemo i sacchetti vuoti, rassetto le cose da buttare, tenendomele in braccio, e poi cerco una posizione idonea a mangiare il mio bel panino consigliato da quel figo di Joe. A pochi metri dall’ultimo Autogrill prima del casello di uscita sento del fresco tra i piedi, ma non è l’aria della macchina, è un fresco un po’ umidiccio, fortunatamente all’autista viene voglia di caffè (io son due mesi che ho voglia di caffè non fatto da me) e si ferma, apro lo sportello, tiro fuori i sacchetti che ho in braccio, riesco a tirar fuori anche un piede e scopro un lago di coca cola in cui sta galleggiando la mia borsa. Il mio bicchiere, rimasto ancora nel sacchetto, dentro il suo supporto, quindi in verticale, era difettoso e il sotto si è aperto, aprendo anche una voragine nel sacchetto, i miei piedi erano già più che umidi, il bordo dei pantaloni già impregnato e, come carta assorbente, stava portandosi l’umidità verso l’alto, possibile che io riesca a fare solo disastri? Ora ero proprio all’apice dell’appiccicume: strati di gel, di sottomano di scala mobile, di sudarella, di panino salsoso, di sale di patatine, di coca cola, di tovaglioli che non asciugano ma si sbriciolano e, davanti a me, una mano tesa con un caffè…ma chissenefrega, si, mi sono bevuta il caffè in tutto il mio putridume, mi è sembrato il più buono che abbia mai bevuto, mi ha ripagata di ogni ansia, brutto pensiero e disastro, ecco il bello della fase 2: le piccole cose, quelle che mi è mancato nella fase 1 sono state proprio le piccole cose, un caffè, prima del virus, era una pausa, una buona pausa, ora, nella fase 2 è godimento, è quella cosa che ti fa dimenticare tutti gli intoppi, la pausa diventa più sacra, intima, è un rituale con me stessa, già, me stessa, anche se piena di difetti e pure mutante, devo ricordarmi di volermi più bene, me lo devo scrivere su un promemoria, perché proprio me lo dimentico sempre!
Bel post
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